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 2007  novembre 24 Sabato calendario

Che lo Stato abbia il diritto, e persino il dovere, di requisire parte della ricchezza prodotta per «ridistribuirla» è una convinzione dura a morire anche fra i socialisti liberali

Che lo Stato abbia il diritto, e persino il dovere, di requisire parte della ricchezza prodotta per «ridistribuirla» è una convinzione dura a morire anche fra i socialisti liberali. Essa si fonda su un mito caro alle sinistre di ogni tempo – quello di «giustizia sociale» – e sull’invidia di classe: ridurre le distanze fra ricchi e poveri, impoverendo i ricchi. Ma dove comincia e dove finisce la giustizia sociale? Dal possesso di un telefono cellulare per ogni membro della famiglia, ovvero nel diritto a prestazioni che ogni singolo individuo potrebbe procurarsi da solo una volta esentato dal pagarne i contributi allo Stato? La giustizia sociale è ciò che un marxista definirebbe la «falsa coscienza» di chi si arroga il diritto di requisire, e ridistribuire, ricchezza attribuendosi doti di imparzialità e di equità che non ha. L’Uomo non è disinteressato, altruista e generoso. Meno ancora lo è l’uomo politico. Che, se di una cosa si preoccupa, è del proprio potere e del consenso che gliene può derivare. Diciamola tutta. Il mito della giustizia sociale è la giustificazione con la quale il ceto politico di governo requisisce ricchezza, e la gestisce, per esercitare il proprio potere e acquisire consenso. I benefici sociali – solo apparentemente gratuiti – ne sono la ricaduta indiretta. La sola ragione è il potere. Prendiamo l’esempio della cassa integrazione. Gli studiosi accusano il sistema: 1) di gestione costosa, burocratica e condizionata dall’ingerenza sindacale; 2) di permettere alla grande industria di espellere i dipendenti in esubero e di ristrutturarsi a spese della collettività, non riservando un trattamento equivalente alle piccole e medie imprese più bisognose di farvi ricorso. Un caso esemplare di eccesso di discrezionalità politica e sindacale che produce dispersione e uso distorto delle risorse. Eppure, la soluzione ci sarebbe. Consentire ai lavoratori e ai datori di lavoro di impiegare i contributi obbligatori nel pagamento di un premio a compagnie di assicurazione private – in concorrenza fra loro nell’offerta di migliori prestazioni – sulla base di contratti-tipo che coprano i rischi oggi previsti dalla cassa integrazione e, magari, contemplino persino una qualche liquidazione di fine rapporto ai lavoratori che non ne abbiano usufruito. Idem per il servizio sanitario. In nome della giustizia sociale, i poveri pagano ai figli dei ricchi l’università pubblica, pressoché gratuita, mentre sarebbe più logico aiutare i migliori con opportune borse di studio ed elevare il livello qualitativo degli atenei. Privatizzandoli. E’ venuto il momento di sostituire al mito – statalista, dirigista, paternalista – di giustizia sociale il principio di uguaglianza delle opportunità. La produzione di ricchezza non è, come credeva Marx, un gioco a somma zero: i poveri diventano sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi. Compito dello Stato non è ridurre la distanza fra ricchi e poveri, ma facilitare l’elevazione di questi ultimi. Se i poveri stanno meglio, che importa se i ricchi diventano più ricchi?