Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 24/11/2007, 24 novembre 2007
Cent’anni fa nasceva Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca di cui lei, Antonio Maccanico, è stato presidente
Cent’anni fa nasceva Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca di cui lei, Antonio Maccanico, è stato presidente. Come ricorda Cuccia? Come fu il vostro primo incontro? «Era l’inizio degli Anni ’60. Io ero funzionario parlamentare, seguivo i nostri rappresentanti a Strasburgo e sulla via del ritorno mi fermavo a Milano. Andavo a trovare mio zio, Adolfo Tino, che spesso mi portava da Cuccia. Parlavamo di Europa e di politica italiana, mai di affari. Scoprii un uomo affabile, cortese, anche spiritoso. Non era affatto gelido. Era riservato». Qual era la sua visione della politica italiana? «Ne era deluso. Non apprezzava la classe politica che aveva preso il potere dopo la Resistenza. Era cattolico praticante, andava a messa ogni domenica, ma riteneva che la religione dovesse riguardare la sfera intima, personale, non quella pubblica. Con la Dc non ebbe mai dimestichezza. Né grandi rapporti con i suoi leader». In particolare con Andreotti, vero? «Cuccia non aveva un buon concetto di Andreotti. E le cose peggiorarono quando Andreotti sostenne Sindona». E con Craxi? «Fu diverso. Cuccia costruì con Craxi un buon rapporto, attraverso l’ingegner Ligresti. Al tempo della privatizzazione di Mediobanca, che Cuccia mi affidò, Craxi fu favorevole. Ma anche Prodi, allora presidente dell’Iri, non frappose ostacoli». Sandro Gerbi ha scritto che il fondatore di Mediobanca non stimava Prodi, tanto da rimproverargli di aver annunciato nell’88 il pareggio del bilancio Iri grazie a un escamotage. «E’ vero, con Prodi i rapporti non erano buoni. Non c’è mai stata sintonia. Del resto, Prodi era allievo di Andreatta, che fu il grande critico della gestione di Cuccia: denunciava le partecipazioni incrociate, le scatole cinesi, i freni alla concorrenza. Io però ero amico di Prodi, e promossi un incontro tra i due, che avviò una certa distensione ». Il primo a criticare i freni alla concorrenza era stato lo stesso Mattioli, nello storico carteggio con Cuccia del 1961. «Cuccia era legatissimo a Mattioli. Insieme avevano ideato Mediobanca. Ma tra i due nacque una divergenza sull’autonomia della loro creatura. Cuccia la vedeva soprattutto come una banca d’affari, del tutto indipendente dalle Bin, le banche d’interesse nazionale che ne erano azioniste. Mattioli aveva in mente un’attività complementare di credito industriale, di supporto alla clientela delle Bin». A Cuccia è stato rimproverato di aver difeso gli assetti proprietari e le grandi famiglie, a scapito dell’apertura del mercato. «In realtà, Cuccia aveva capito la debolezza del sistema economico italiano in quella fase storica. Scarsi capitali, Borsa quasi inesistente: viste le condizioni, l’urgenza non era la contendibilità delle aziende, ma la loro sopravvivenza e il loro sviluppo. La visione di Cuccia era quella di Rathenau: ”Difendere l’impresa in sé”». Il rapporto con Giovanni Agnelli era paritario, o no? «Cuccia non aveva grande considerazione degli industriali italiani. Vedeva in Agnelli l’unico personaggio alla propria altezza. La stima per l’Avvocato era sincera. Certo, non è un mistero che Cuccia rivendicasse per sé la regia delle operazioni di finanziamento straordinario, e talora la scelta degli uomini destinati a gestirle: come quando per la guida della Fiat suggerì il nome di Romiti. Ma non credo che Agnelli se ne sia mai dovuto pentire. Cuccia mi diceva che la Fiat era come il Monte Bianco, un gigante circondato da collinette. E che il suo sogno era di costruire accanto alla Fiat un Monte Rosa. Fu anche la sua grande delusione». La Montedison? «Certo. Da qui il suo appoggio a Cefis ». Un errore? «Non credo, o comunque non quello decisivo. Se il sogno di Cuccia non ebbe compimento, fu perché la storia della chimica italiana, dal caso Rovelli al caso Gardini, è costellata di errori». Un altro rimprovero mosso a Cuccia è di non aver avvertito Ambrosoli delle minacce di morte proferite da Sindona. «Penso invece, anche se non lo so con certezza, che l’avesse avvertito tramite i suoi avvocati. Ma il punto è che Ambrosoli sapeva benissimo di essere in grave pericolo, come lo sapeva Cuccia, per via della sua battaglia contro Sindona. Accadeva che qualcuno telefonasse a Cuccia presentandosi come Ambrosoli e minacciando di morte lui e i suoi familiari, e poi facesse lo stesso con Ambrosoli presentandosi come Cuccia. Io allora ero segretario generale della Camera, e poi del Quirinale, e un amico comune mi chiese di far prendere provvedimenti in difesa di Cuccia. Ma lui non aveva alcuna intenzione di rinunciare alle sue abitudini, tanto meno alla passeggiata per andare al lavoro». Chi erano i suoi amici? «Leo Valiani, l’amico della vita. Ugo La Malfa, il politico che stimava di più. Indro Montanelli, l’unico giornalista che avesse accesso a lui; talora lo invitava a pranzo; nessuna intervista, però. Stimava Luigi Firpo, cui affidò la prefazione dell’edizione critica di Beccaria in morte di mio zio, e Umberto Veronesi, che finanziò. All’estero si guadagnò la stima incondizionata dei più grandi banchieri del ”900: André Meyer, Felix Rohatyn che poi divenne ambasciatore americano a Parigi, David Lilienthal l’uomo che Roosevelt aveva messo a capo della Tennessee Valley Authority. Era uomo di grande cultura storica. Molto interessato alla politica, ma attento a evitare le invasioni di campo della politica; il che gli riuscì grazie anche all’aiuto di Guido Carli. Altra grande passione era la letteratura. E’ noto che possedesse tutta la Pléiade e non perdesse un numero del supplemento letterario del Times; ma era attento anche ai romanzi e ai saggi italiani appena usciti. Il suo scrittore prediletto era Manzoni, di cui condivideva le giovanili venature gianseniste». Perché non si lasciava intervistare neppure da Montanelli? «uomo affabile, cortese, anche spiritoso. Non era affatto gelido. Era riservato Ma era tanto riservato perché non voleva essere un personaggio? O il suo personaggio esigeva la riservatezza? «Cuccia detestava apparire. Non amava la vita mondana. Uscire per lui significava andare a una mostra. Non gli importava essere un personaggio; gli importava difendere la riservatezza delle sue mosse, e dei suoi clienti». Gerbi scrive che Cuccia ebbe per Berlusconi un "epiteto irriferibile". «Credo che Gerbi abbia ragione. Cuccia guardava con preoccupazione alla discesa in campo di Berlusconi. Anche se di lui non parlava quasi mai». Gli si attribuisce invece un rapporto di stima con D’Alema. «So che si videro una volta, quando D’Alema era a Palazzo Chigi. Ma, a essere sincero, non l’ho mai sentito parlare neppure di D’Alema». Ha senso considerare Cuccia come uomo di centrosinistra? Per quale partito votava? «Nella prima Repubblica, partito d’azione e poi, credo, partito repubblicano. Era favorevole al centrosinistra storico, come lo era La Malfa. Nella seconda Repubblica non si è mai riconosciuto in uno schieramento. Fu, sino alla fine, un antifascista convinto. Dover scegliere tra Prodi e Berlusconi non lo metteva di buonumore. Infatti sul futuro dell’Italia era pessimista». Che cosa le disse nel vostro ultimo incontro? «Che l’Italia migliore, l’Italia del lavoro e del merito, era sempre più minoranza».