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 2007  novembre 24 Sabato calendario

DAL NOSTRO INVIATO

BEIRUT – Il presidente Emile Lahoud se n’è andato a mezzanotte, come i ladri di potere e le Cenerentole della politica. L’orologio del suo mandato era rintoccato tre anni fa. La sua carrozza era già una zucca.
Lahoud ha piegato la bandiera di guerra, ha rimesso in valigia le foto dei suoi amici siriani che teneva da nove anni sul servomuto del salone. Ha salutato il fedele Rafiq Shlala, il portavoce. Poi gli ha consegnato un comunicato per le tv. L’ultima goccia di veleno nei pozzi d’un Paese assetato d’un presidente, d’un governo, di pace, d’un po’ di normalità: «A causa di queste eccezionali circostanze in cui il governo non può esercitare i suoi compiti esecutivi», il capo dello Stato decide nell’ultimo giorno del suo mandato di «conferire all’esercito la prerogativa di preservare la sicurezza sull’intero territorio e mettere tutte le forze di sicurezza sotto l’autorità delle forze armate ».
Brevi righe, l’eco che voleva: il cristiano Lahoud non usa mai la parola stato d’emergenza, perché la costituzione non gli permette di proclamarlo così, ma è questo che scatta in tutto il Libano. Ed è questo, il primo tonfo d’uno Stato che in 64 anni d’indipendenza non s’era mai trovato senza capo. Non è un golpe: è la mossa «di garanzia » d’un presidente che non riconosce il governo antisiriano del sunnita Fuad Siniora, non vuole mollargli l’interim e non ha altra scelta, se non sbarrare il palazzo di Baabda e consegnarne le chiavi, anziché al premier, al generale cristiano Michel Suleiman. Non è un colpo di Stato, ma coi carri armati che da due giorni pattugliano Beirut, con Suleiman che lo stesso Lahud aveva candidato alla sua successione, con le breaking news che rimbalzano per il mondo e fanno già dire agl’iraniani «siamo vicini alla guerra civile», tutto ciò è quanto basta a Siniora per reagire nervoso: l’atto di Lahoud «non è valido – replica ”, è nullo e come non avvenuto». Rapida anche la mossa di Washington, che invita tutti a «mantenere la calma » e loda pubblicamente Suleiman, capace d’«assicurare la legge e l’ordine nel periodo di transizione».
Lui, il generale, tace. Ma fa sapere che resterà fedele al governo Siniora. La sua popolarità, già grande, è cresciuta in questi mesi per come ha domato i jihadisti nei campi palestinesi. La dichiarazione di Lahoud potrebbe dargli anche qualche potere in più, come il controllo della polizia e dei servizi segreti, ma a Beirut s’esclude che ne voglia approfittare. Qualche giorno fa, Suleiman aveva promesso che i suoi militari avrebbero «protetto i palazzi delle istituzioni». Ha cominciato a farlo ieri mattina, a mezzogiorno, all’inutile convocazione del Parlamento. C’erano più soldati che deputati, in place de l’Etoile. Anche se, lo sanno tutti, l’elezione del successore di Lahoud è la sfida per una poltrona che non conta molto: Hezbollah e governo ne hanno fatto la loro Linea Verde, un simbolico terreno di scontro. I 68 della maggioranza antisiriana sono entrati in aula, i loro leader Saad Hariri e Walid Jumblatt hanno parlato un’ora col presidente delle Camere, Nabih Berri, alla fine s’è preso atto del fallimento dei mediatori europei Kouchmer-Moratinos- D’Alema, dei siluri ai sei candidati cristiani elencati dal patriarca Sfeir. Tutto rinviato: ci si ritrova qui venerdì prossimo all’una, stessa piazza e stessi soldati, fra negozi chiusi e caffè deserti, di fronte agli accampamenti hezbollah che da un anno paralizzano il centro di Beirut. Si aspetta la conferenza di Annapolis, o forse un miracolo.
«Non mi stupirei che questa settimana di consultazioni extra servisse a uscire dall’impasse », spiega uno stimato costituzionalista beirutino, Ziad Barud: «In un Paese come il Libano, tutto si risolve alla venticinquesima ora». Sempre che l’orologio, anche questo, non sia già rintoccato da un pezzo.