Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 24/11/2007, 24 novembre 2007
La favola dei principi zucca e della fata Smemorina pare avere un finale diverso dal previsto. Ricordate cosa disse Silvio Berlusconi tanti anni fa, parlando degli alleati? «Sono stato come la fata Smemorina di Cenerentola: erano zucche e li ho trasformati in principi»
La favola dei principi zucca e della fata Smemorina pare avere un finale diverso dal previsto. Ricordate cosa disse Silvio Berlusconi tanti anni fa, parlando degli alleati? «Sono stato come la fata Smemorina di Cenerentola: erano zucche e li ho trasformati in principi». Conclusione sognata: «E vissero tutti felici e contenti». Macché... Oddio, avendo cominciato a lavorare «quando gli altri giocavano con le figurine », il Cavaliere faceva un po’ di confusione tra topi, gatti e ortaggi. Ma una cosa l’aveva chiara: Fini e Casini li aveva creati lui. Promuovendoli e insieme ingessandoli nel ruolo di principi ai quali lui solo, con un tocco di bacchetta magica, avrebbe potuto consentire un giorno l’ascesa al trono. Quando, maestà? Quando avesse deciso lui. «Ho capito», rise acido Pierferdy all’ennesimo e sorridente rifiuto del Cavaliere di prendere in considerazione anche l’ipotesi di un passaggio di consegne, «finirò per andare fuori tempo massimo io...». Bisogna ripercorrere una storia lunga quasi tre lustri per capire quanto sia lacerante, a destra, lo scambio di coltellate di ieri. Di qua i principi ribelli a firmare per la prima volta un documento comune contro il Re del Popolo: «La gravità della situazione italiana impone di elaborare progetti che nulla hanno a che fare con l’improvvisazione propagandistica né con estemporanee sortite populistiche ». Di là l’istrionico monarca a rispondere sprezzante: «Vorrà dire che io mi tengo gli elettori e loro i progetti». Certo, in 14 anni di percorso comune (lui davanti, gli altri dietro) non erano mancati i momenti di reciproca insofferenza. Basti ricordare certe battute di Berlusconi sui compagni di strada, Bossi compreso: «Io ho fatto un mare di battaglie in vita mia mentre i miei alleati hanno fatto solo politica». Come poteva, al di là dell’assioma astratto dell’eguaglianza, accettare l’idea di trattare con loro da pari a pari? Lo ammetteva lui stesso: «Ho un complesso di superiorità che devo tenere a freno». «Il suo principio è uno solo: qui comando io», spiegò Stefano Podestà, che nel primo governo azzurro era stato ministro dell’Università. Le sue collere verso gli alleati che non lo assecondavano, improvvise e furibonde come uragani tropicali, restano leggendarie. Fin dagli anni più lontani. Contro Casini che voleva dire la sua sul governo: «Chi dice che tra i cattolici del Polo e Pannella ci siano state divergenze sui valori mente spudoratamente. Al tavolo delle trattative non ho mai sentito parlare né di valori cattolici né di principi ». Contro Fini che si era irrigidito nella Bicamerale: « sleale e ingrato: se non ci fossi stato io lui non sarebbe qui». Per non dire delle scenate nella seconda fase del suo quinquennio a Palazzo Chigi. Una volta sbottò: «Uno come me, che ha un patrimonio di 20 mila miliardi, deve perdere tempo con voi! Vorrà dire che, quando mi sarà passata, visto che sono una persona gentile, vi scriverò qualche cartolina dalle Bahamas!». Un’altra, all’ennesimo tentativo dell’Udc di smarcarsi da certe scelte, investì Bruno Tabacci come un tornado: «Voi ex democristiani mi avete rotto il ca... (censura). Basta con la vecchia politica. Conosco i vostri metodi da irresponsabili. Fate favori di qua e di là e poi raccogliete voti, ma io vi denuncio, non ve la caverete a buon mercato, vi faccio a pezzi. Io le televisioni le so usare e le userò. Chiaro? Mi avete rotto i co... (censura)». Fino all’ultima sfuriata, rivelata dal Giornale (e svogliatamente smentita) contro quel Fini che gli aveva rinfacciato l’errore di aver garantito mille volte la spallata e di averla fallita: «Dalle fogne li ho fatti uscire e nelle fogne li faccio tornare». Le reazioni dei due alleati erano state altrettanto dure. Certo, non quanto quelle di Bossi che nei momenti di polemica più aspra era arrivato a dire che Berlusconi era «un brutto mafioso che guadagna i soldi con l’eroina e la cocaina », però... Però Casini, alla vigilia del voto del 1996, arrivò a dire che «a correre con Berlusconi per Palazzo Chigi ci andremmo a impiccare in una polemica sul conflitto d’interessi». E Fini si era battuto per andare subito alle elezioni, quell’anno, nella convinzione di poter subentrare all’uomo che lo aveva sdoganato. Mai, però, i rapporti erano stati pessimi, anche sul piano umano, quanto oggi. Mai. Sullo sfondo, anzi, riemergeva sempre la voglia, il bisogno, la necessità di smussare, tamponare, ricucire. E l’antica promessa del Cavaliere di cedere un giorno lo scettro all’erede che lui avrebbe designato. Prima il segretario dell’allora Ccd: «Caro Pierferdinando, perché non fai tu il segretario di Forza Italia?». Poi il leader di An. Testimonianza di Gustavo Selva: «Silvio mi ha confidato: non ho alcuna gelosia per Gianfranco, proprio nessuna. Lavoro per farne il mio erede». Obiettivo ribadito mesi fa dopo il progressivo smarcamento dell’Udc: «Se andiamo a fare il partito delle libertà, Fini è il più prestigioso e autorevole per guidarlo». Sì, maestà, ma quando? Sempre lì, a quella domanda, si finiva. Finché i due «principi zucche» si sono stufati. Prima Casini: «Non aspetto che qualcuno mi batta la spada sulla testa e mi dica "sei l’erede". Io sono un uomo libero». Poi Fini: «Berlusconi non è mica il re!». Ed ecco la rottura. La ribellione aperta. Il regicidio politico. Tutte cose che in qualche modo, oltre che dai politologi più accorti, erano state previste anche da Roberto Benigni. Il quale aveva spiegato: «Il fatto è che Berlusconi, sentendosi un po’ Gesù (a Torino dov’è la Sindone girava chiedendo: "Dov’è il mio asciugamano?") non trova un erede col quale costruire una frase come quella di Gesù con Pietro: "Pietro, su questa pietra costruirò la mia chiesa". Ci ha provato con Fini, ma quando ha detto: "Fini, su questa fine..." ci ha rinunciato. Poi con Casini: "Casini, su questo casino..." e ha rinunciato anche con lui». E poi, perché mai doveva cedere la corona se il suo medico Umberto Scapagnini gli ha assicurato che è immortale? Gian Antonio Stella