Alberto Ronchey, Corriere della Sera 23/11/2007, 23 novembre 2007
A un anno dalla scadenza del mandato di Bush, negli Stati Uniti la campagna presidenziale ha preso l’avvio su disparati problemi, la congiuntura economica, la sanità pubblica, l’immigrazione clandestina dal Messico, ma specialmente la politica estera
A un anno dalla scadenza del mandato di Bush, negli Stati Uniti la campagna presidenziale ha preso l’avvio su disparati problemi, la congiuntura economica, la sanità pubblica, l’immigrazione clandestina dal Messico, ma specialmente la politica estera. I candidati alle primarie per la nomination democratica, Hillary Clinton, Barack Obama, John Edwards, insistono sui rischi e i costi assunti nel Medio Oriente. Gli oneri dell’american superpower, come gendarme internazionale, risultano esorbitanti su quello scacchiere. Un rapporto parlamentare del Joint Economic Committee segnala che il costo delle guerre in Afghanistan e Iraq ha raggiunto finora 1600 miliardi di dollari, almeno il doppio delle previsioni. E l’economia deve anche affrontare questioni come l’abnorme debito estero, la crisi finanziaria ex subprime, gli esosi prezzi del petrolio in dollari. Nello stesso tempo, un convegno dell’Opec a Riyad ha concluso che le quotazioni del barile di greggio non possono ridursi finché durano le conflittualità mediorientali. Qual è, propriamente, lo stato delle cose in quell’intero scenario? L’Iraq rimane in larga misura incontrollato, anche se il generale David Petraeus e il capo del governo di Bagdad Nuri Al Maliki assicurano che gli attentati e gli scontri interetnici si sono ridotti. Sul momento, una quiete relativa sembra in corso anche a Falluja, che nel 2004 fu teatro delle peggiori stragi, descritte in ogni atroce dettaglio da cronisticomeWilliamLangewiesche, su Atlantic Monthly. Eppure la guerriglia non è certo esaurita, mentre l’Iran tenta con ogni mezzo di estendere la sua influenza sulle aree sciite. Ora suscita inquietudine un’altra questione, il Pakistan. Laggiù, gli Stati Uniti hanno profuso ingenti sovvenzioni per arginare la guerriglia talebana di ritorno, che ha le sue basi nelle aree tribali di frontiera con l’Afghanistan, come il Waziristan, rifugio di Al Qaeda. Oggi tuttavia la società pakistana è vulnerabile a una pericolosa instabilità, tra i fedeli di Pervez Musharraf e i seguaci di Benazir Bhutto, i militari occidentalisti e i panislamisti. La vicenda è legata non solo alle sorti dell’antiguerriglia, dopo l’annuncio dell’offensiva talebana di primavera. Il massimo rischio, nell’ipotesi che il potere cada fuori controllo politico responsabile, sta nella circostanza da non dimenticare che Islamabad è la sola capitale musulmana in possesso dell’atomica. Riguardo all’area del conflitto israeliano-palestinese, si spera negli assidui colloqui tra Ehud Olmert e Abu Mazen, mentre a Gaza l’estremismo di Hamas risulta indebolito. Ma è incerto l’esito dell’imminente conferenza di Annapolis, promossa dagli Stati Uniti con la partecipazione di numerosi governi. L’era della coesistenza pacifica tra «due popoli, due Stati» non è ancora prevedibile. Da ultimo, a completare lo scenario mediorientale, rimane allarmante la conflittualità di frontiera tra la Turchia e il Kurdistan iracheno. Il governo Erdogan minaccia di rispondere alle incursioni dei curdi affiliati al Pkk con l’invasione. Per ora, è trattenuto dagli Stati Uniti e dall’Europa. Solo per ora?