Bruno Ventavoli, La Stampa 23/11/2007, 23 novembre 2007
BRUNO VENTAVOLI
MODENA
Le prime furono le mitiche Liebig. Oltre a ribadire che l’estratto di carne era «squisito e genuino» spiegavano i «trucchi del cinematografo» con una bella serie colorata nel 1912-1913. Poi fu un allegro diluvio. I miti dello schermo si trovavano benissimo nei pochi centimetri quadrati delle figurine. I rapporti tra i due mondi vengono ora raccontati in una divertente mostra al Museo della figurina di Modena (fino al 9 dicembre), «Cinema e star, quando lo schermo si fa figurina», da seguire non solo con l’occhio languido dell’amarcord ma anche, più in generale, come storia della comunicazione di massa.
Negli Anni trenta, il cinema fu tra i soggetti preferiti delle cigarette-cards, le figurine di cartone che servivano a rinforzare i pacchetti di sigarette. L’effetto pubblicitario era garantito sia per le star che per le fabbriche di tabacco. Anche perché il fumo, tutt’altro che demonizzato, contribuiva a creare l’aura maliarda dei personaggi sullo schermo. Nella vita normale, fumavano soprattutto i maschi. E così le figurine americane e inglesi ospitavano molte attrici, da Greta Garbo in abito trasparente a Jean Harlow in capelli color platino. Nel 1935 anche la Germania nazista dette un contributo al genere, con una meravigliosa storia del cinema a colori, che si poteva ricevere con i buoni delle sigarette Altona-Garenfeld. Album raffinati. Perfetti. Che ben rispecchiano la passione di Goebbels per le figurine, considerate strumento di propaganda.
Le aziende italiane, al pari delle straniere, utilizzano foto di personaggi del cinema da inserire come figurine nei prodotti per incrementarne la vendita. Ed è solo nel dopoguerra che la figurina diventa un prodotto editoriale autonomo, venduto in apposite bustine. Gli album sono una specie di fotoromanzo, di photo novel, della pellicola. Le attrici, dive carnose e sensuali, transitano nel frattempo per i calendarietti da barbiere, prodotti ibridi, a metà tra i santini e i libelli libertini. Con la scusa di tenere a mente i giorni dell’anno, in quegli anni di pruderie, si poteva conservare in saccoccia l’immagine di una Gina Lollobrigida scollata o di una Sophia Loren in calze nere.
Dagli Anni Settanta, l’attenzione degli editori si sposta, anche perché ci sono norme più rigide sui diritti d’autore, verso album legati a film di grande successo e produzioni tv. La figurina diventa un elemento fondamentale del merchandising. Arrivano raccolte celebri, come il «Sandokan» di Kabir Bedi, o il Fonzie di «Happy days». Fino alla saga di Guerre stellari, a Harry Potter, al Di Caprio di Titanic, al Riccardo Scamarcio di «Ho voglia di te». Gli sticker da collezionare sono funzionali al mito. Proprio come le pin up, servivano a rendere meno tragica la guerra di trincea.
La coloratissima mostra di Modena mette così in evidenza l’anima e le funzioni di queste piccole icone in un secolo di storia. Le figurine non sono solo la prima unità di misura per gli scambi, i commerci, le speculazioni della nostra infanzia, quando anche un Pizzaballa o una Brigitte Bardot potevano innescare bolle speculative all’oratorio perigliose quanto i subprime. Ma erano anche l’humus del divismo. Il sistema più personale, intimo, duraturo di «possedere» una star. Di rivederla fissata per l’eternità su un frammento di carta, ogni volta che si voleva. Quando ancora non esistevano né cassette né dvd, e i sogni, sullo schermo, volavano via, inafferrabili come il tempo.