Marcello Sorgi, La Stampa 23/11/2007, 23 novembre 2007
«Ci pensava da un anno». «Macché, da due». «Ha deciso in un pomeriggio». «Ma se dalla manifestazione del 2 dicembre non parlava d’altro!
«Ci pensava da un anno». «Macché, da due». «Ha deciso in un pomeriggio». «Ma se dalla manifestazione del 2 dicembre non parlava d’altro!...». Ora che la svolta è compiuta, la versione ufficiale vuole che sia stata, insieme, un colpo di scena e una decisione meditata. Gli uomini di Forza Italia che la raccontano, partendo da molto lontano, hanno ancora sui volti stampata la sorpresa di domenica sera, quando molti di loro hanno appreso dai telegiornali che il loro partito era stato cancellato, rimpiazzato da un altro inventato in tre ore, e ancora tutto da costruire. Tolti Gianni Letta, Paolo Bonaiuti e altri due o tre, nessuno sapeva. Lo hanno appreso al telefono o dal passaparola, tra le due e le cinque del pomeriggio, quando Berlusconi ha avuto l’ispirazione, dopo i fischi di An a Cicchitto e le accuse al Cavaliere di aver finanziato il partito di Storace. Bonaiuti se l’aspettava: «Quando il capo, in maniche di camicia, ti guarda e dice ”ho un sogno…”, chi lo conosce sa che il sogno sta già per tramutarsi in realtà». «Ma io e tanti come me siamo stati presi alla sprovvista - sbotta Angelo Sanza, coordinatore della Basilicata -. Ero a Barletta, con un freddo tremendo a raccogliere le firme nei gazebo. D’improvviso arrivano due amici avvocati, e mi sfottono: non lo sai che il Cavaliere ha ammainato le bandiere?». Quando sia cominciato, il sogno di Berlusconi, è difficile dirlo. Le date si moltiplicano, nello sbalordimento che ancora accompagna coloro che son sospesi, tra il partito che non c’è più e quello che deve ancora venire. Due, tre anni di gestazione, se ci si riferisce al lavoro preparatorio fatto dalla «Fondazione Liberal» e diretto da Ferdinando Adornato, un altro di quelli che domenica non è stato avvertito e s’è dimesso per protesta. Un anno solo, se si parte dalla grande manifestazione del 2 dicembre 2006, un giorno «dei più belli della mia vita», come lo ha definito il Cavaliere. Tra i due punti di partenza non c’è contraddizione, anche se è chiaro, dall’inizio, verso dove pendeva il cuore di Berlusconi. Il lavoro di Liberal procedeva a rilento. Era stata composta una commissione di un centinaio di persone, affittato un intero piano di Palazzo Wedekind a Piazza Colonna, stabilita una certa articolazione/lottizzazione degli incarichi tra i tre partiti (Forza Italia, An e Udc) che avrebbero dovuto confluire nel partito unico. Berlusconi era ancora a Palazzo Chigi, due anni fa, e veniva continuamente invitato a benedire i lavori della commissione. Lo faceva di buon grado. Usciva a piedi, subito circondato dalla folla di fan che lo aspettava per strada, attraversava a passi svelti la piazza, entrava nel palazzo, poi nel salone della commissione, e salutava tutti alla sua maniera, tra sorrisi e battute. Dopo una mezz’oretta, con la scusa di pressanti impegni di governo, se ne tornava in ufficio. Una, due, tre riunioni bastarono a fargli venire la noia. Arrivava motivato e convinto che di lì a poco sarebbe nato il nuovo partito, e trovava tutti intenti a discutere di statuti, principi, regole per avviluppare la creatura prima della nascita. Alle sue domande, la risposta era secca: un partito vero si fonda così. Lui ascoltava paziente, ma poi per strada, ai più stretti collaboratori obiettava: «Sarà pure come dicono loro. Ma il popolo, dove sta il popolo, in mezzo a queste carte?». Fabrizio Cicchitto, il vicecoordinatore nazionale di Forza Italia, si ricorda ancora quella volta che Adornato intrattenne Berlusconi sul Pantheon dei numi tutelari del nuovo partito: «Ci aveva messo dentro di tutto, Dante, Papini, Prezzolini, perfino Pasolini». Berlusconi ascoltò in silenzio senza entusiasmarsi. Un’altra volta, ed era alla fine del 2005, quando i cento saggi approvarono la «Carta dei Valori», Berlusconi tornò al lavoro contrariato. Continuava a chiedere: «Ma il popolo?», aggirandosi nervosamente tra i muri dell’ufficio. E incredibilmente, per uno come lui abituato a trattare sempre con cortesia qualsiasi tipo di collaboratore, se la prese con un commesso, al quale aveva chiesto un panino, che gli aveva invece portato un tramezzino rinsecchito. Un divario come questo, tra quelli che Berlusconi ancora non chiamava «parrucconi», e il popolo che lo aspettava sempre per strada, non poteva che aggravarsi dopo la grande manifestazione del 2 dicembre. Berlusconi osannato da una folla festante, messo di fronte a una piazza in cui, con suo grande compiacimento, «le famiglie di Forza Italia marciavano a braccetto con gli ex missini romani e i leghisti padani», tornò a casa felice di aver visto «finalmente insieme, senza distinzioni, il popolo di centrodestra». Ormai, dopo la sconfitta elettorale, l’allontanamento di Casini e dell’Udc e con le angustie dell’opposizione, il progetto di Adornato per il Cavaliere era diventato acqua passata. Nel suo futuro c’era solo il popolo, il partito unico e cominciava ad esserci la signora dai capelli rossi, quella Michela Vittoria Brambilla oggi a capo dei circoli e nel cuore politico del Cavaliere. Ad Emilio Fede, che l’aveva conosciuta giovane giornalista, fece un certo effetto ritrovarsela davanti. «Eravamo ad Arcore, il presidente mi fa: ti dispiace se arriva la Brambilla? Ma figurati, dissi. Poi, vedendola arrivare, me ne andai». A tutt’oggi, un termometro stabile degli umori interni del centrodestra, oltre che di casa Berlusconi, come il Tg4, non ha ancora dedicato un minuto, dicasi un minuto, alla regina dei circoli. Ma per il Cavaliere, già proiettato sul suo popolo e seccato per le resistenze interne del partito a cambiare, anche la fredda accoglienza riservata a MVB fu motivo di amarezza. Lei, la signora, non versava certo acqua sul fuoco, e in un’intervista disse che Dell’Utri e Tremonti, suoi avversari, erano come le mestruazioni: all’inizio fanno male ma poi passano. Una sera di luglio a Napoli in cui, con un caldo asfissiante, la gente lo aspettava a piazza Plebiscito, Berlusconi si rivolse così a Donato Bruno, ex presidente della commissione Affari istituzionali: «Guarda questa gente, con quaranta gradi mi aspettano da ore. Mi sai dire perché non riusciamo a dargli il partito che ci chiedono?». Il resto, è storia degli ultimi giorni. La vigilia del voto decisivo alla Camera in cui Fini comincia a smarcarsi. La lite vera e propria con il leader di An, in cui si mescolano ragioni politiche e private, e minacce come quelle poi pronunciate pubblicamente, su un possibile appoggio di An alla legge tv antiMediaset di Gentiloni. Segue l’inutile lavoro dei pacieri, da La Russa a Gasparri, a Bonaiuti, ai coordinatori Bondi e Cicchitto. Finché, la sera prima del voto che segnerà la sua sconfitta in Senato, Berlusconi, stranamente, si lascia scappare una battuta in brianzolo: «Mi sun chì, che laùri per l’azienda, e chel là...» (Mentre io lavoro per l’azienda, quello là…). «Chel là», l’alleato ormai perduto, sta già preparando l’addio alla coalizione. Ora che la svolta è avvenuta, e la domenica di piazza San Babila si compone e scompone nei racconti degli ex azzurri, tutti si chiedono cosa accadrà. C’è chi non perdona il gesto da autocrate: «Noi ce ne andiamo a fare un’altra cosa, con Pisanu, con Scajola, speriamo anche con Montezemolo e Pezzotta. E se Mastella si convince…», sospira Sanza. Altri, come Bruno, sono intenti a rassicurare la periferia e la burocrazia del partito, i coordinatori locali: «Berlusconi è prudente, saprà recuperare, ha già detto che Forza Italia resterà il tronco del nuovo partito». Altri ancora si sentono sotto tiro, come gli (ex) coordinatori nazionali del partito in liquidazione. «Ma alla fine non mi preoccupo – spiega Cicchitto -. Ne ho viste tante, e qui tutto torna in discussione, chi ha più filo tesserà. In Italia si passa dalla pace alla guerra velocemente, e pace e guerra non si fanno mai seriamente». 1 - continua