Varie, 22 novembre 2007
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Mahmood Almas
• (Pakistan) 1992. Il 18 gennaio 2010 fu rapita dal padre Akhtar, originario del Pakistan, che per un giorno e una notte divenne l’uomo più ricercato d’Italia • «[…] ”Sì. Io sono il mostro, il criminale. […] Ho fatto cose che non dovevo fare, ora lo capisco. Ma se il cuore di genitore prende a battere forte, fai cose che non hanno una logica […] Erano dieci mesi che non incontravo mia figlia. Le volevo dire: torna con noi, siamo disposti a tutto. C’era stato quello schiaffo, il 22 aprile 2009 e lei era stata portata al pronto soccorso dalla mamma delle sue amiche, quelle che l’hanno rovinata. Un piccolo taglio in testa perché aveva sbattuto contro un mobile. I giudici mi hanno tolto la patria potestà ma hanno detto che potevo incontrare mia figlia. In dieci mesi i servizi sociali non sono stati capaci di organizzare un incontro. Ho parlato con la moglie e i figli e abbiamo deciso: Almas deve tornare con noi. Dobbiamo dirle in faccia che per lei siamo pronti a cambiare tutta la nostra vita […] Io sono pakistano e musulmano ma la religione non c’entra. Non sono nemmeno un padre padrone, con i figli discuto sempre. Questo è un conflitto genitori-figli, come succede anche agli italiani. Almas è arrivata in Italia a 12 anni e in prima media ha trovato quelle amiche che fumavano, andavano in discoteca, non studiavano e lei voleva fare come loro. Io le ho spiegato: loro sono ricche e noi no. Ognuno deve portare i pesi suoi con le spalle sue. E lei mi ha risposto… vai a quel paese. Almas ha spiegato che per le sue amiche italiane è normale mandare a quel paese i genitori. Poi c’è stato quello schiaffo, perché lei voleva andare a ripetizione di matematica da sola, 20 euro all’ora, e non con il fratello. ”Almas, io ho perso il lavoro, tu non puoi fare la principessa’”. Dall’ospedale Almas esce solo per entrare in una comunità. ”Gli altri pakistani erano tutti con me. Tanti erano andati all’ospedale per dire a mia figlia di perdonarmi. Poi qualcosa è cambiato e la solidarietà è scomparsa. Mi guardavano tutti con gli occhi storti. Hanno messo in giro delle voci. ”Se Almas sta lontano da casa sua vuol dire che ha un fidanzato e allora non sarà più degna di un matrimonio…’. anche per questo che ho deciso di rapire mia figlia. Volevo offrirle un’altra vita. Andiamo a Roma, compriamo un negozio, non vediamo più nessuno di quelli che ci guardano male”. Non c’era nessun matrimonio già combinato. Tutti d’accordo, la sera prima del rapimento. ”In una famiglia - disse la moglie Nabeela - si nasce assieme e si muore assieme”. Due valigie nel baule. ”Lasciavo tutti i miei mobili, ma se perdi la famiglia, cosa ti importa di un tavolo?”. La ragazza vede il fratello davanti a scuola e cerca di scappare. ”Allora io l’ho presa per le spalle e l’ho buttata in macchina. Lei urlava e ho deciso di prendere l’autostrada per andare lontano, dove nessuno ci conosceva”. Scatta l’allarme sequestro, si mobilitano centinaia di carabinieri. ”Sull’autostrada per Roma, a 130 all’ora, lei ha aperto lo sportello per buttarsi giù. L’abbiamo bloccata. Io le ho detto: andiamo a Roma perché dal Pakistan sono arrivati i nonni che ti vogliono parlare. Era un bugia ma volevo calmarla. Nulla da fare. Arriviamo a casa di un nostro amico, in un quartiere romano, e lei continua a gridare e a rompere mobili. Si calma solo a mezzanotte, quando le dico: va bene, ti riporto in comunità, ho già avvertito i carabinieri. Ma tu non sei più mia figlia. Ci fermiamo anche a mangiare in un Mc Donald’s. Riusciamo finalmente a parlare. Lei mi dice che non vede più da un occhio, che non riesce a mangiare… Sbaglio strada, arrivo a Firenze. Prima di Fano mi ferma un’auto dei carabinieri. Uno mi punta la pistola alla testa. ”La metta via, così spaventa i ragazzi’. Da allora non ho più visto nemmeno i figli piccoli”. […]» (Jenner Meletti, ”la Repubblica” 10/2/2010).