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 2007  novembre 21 Mercoledì calendario

Quando è il sindacato a tenere bassi i salari. Il Sole 24 Ore 21 novembre 2007. un ritornello fischiettato ormai da tutti che dice: in Italia gli stipendi sono bassi, fra i più bassi d’Europa, e quelli dei giovani hanno anche perso potere di acquisto

Quando è il sindacato a tenere bassi i salari. Il Sole 24 Ore 21 novembre 2007. un ritornello fischiettato ormai da tutti che dice: in Italia gli stipendi sono bassi, fra i più bassi d’Europa, e quelli dei giovani hanno anche perso potere di acquisto. un ritornello molto orecchiabile e lo stesso Governatore della Banca d’Italia, osservatore attento dei fatti della nostra economia, ha contribuito alla sua popolarità. Mario Draghi lo ha fatto utilizzando i dati in modo corretto e soprattutto spiegando anche i motivi per cui i salari sono bassi: scarsa produttività e scarsi investimenti in capitale umano e fisico. Ma non sempre i dati vengono presentati con lo stesso dovuto distacco e non sempre si indicano con precisione le cause del fenomeno, soprattutto quelle cause che chi si lamenta tanto potrebbe contribuire a rimuovere. Prendiamo il caso del recente studio presentato dall’Ires-Cgil (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri). Questa analisi sostiene che un lavoratore dipendente con un reddito di circa 25mila euro nel 2007 ha perso dal 2002 circa 1.200 euro per effetto dell’inflazione. L’effetto mediatico è forte: sembra una perdita enorme, pari a una mensilità. Ma, come lo studio osserva en passant, si tratta di una perdita cumulata in cinque anni. l’equivalente di 24 euro al mese: importanti fin che si vuole, ma da collocare nella loro giusta dimensione. Lo studio poi sceglie un anno di riferimento, il 2002, che è adatto per arrivare alle conclusioni cercate, ma che non è idoneo per fare confronti appropriati. Scegliendo un anno diverso, si poteva calcolare che non c’è stata perdita di potere d’acquisto. E, infine, si dimentica sempre di dire che, grazie alla moderazione salariale di quegli anni, l’occupazione è cresciuta di qualche milione. E che i redditi familiari ne hanno di conseguenza beneficiato. Detto questo per dovere di cronaca, veniamo al secondo punto, forse il più importante. Perché la produttività è cresciuta poco? E ancora: che contributo può dare il sindacato per farla ripartire? La produttività aumenta non solo in seguito a un processo di selezione delle imprese più efficienti. La produttività può (e deve) crescere anche all’interno delle aziende. I nostri imprenditori ci sono riusciti per decenni: non si vede perché non possano farlo ancora. Deve essere creato un ambiente favorevole per le innovazioni, di processo e di prodotto. Ad esempio con relazioni industriali di carattere partecipativo, con i sindacati disponibili a contrattare quella flessibilità interna (degli orari e di quant’altro) utile per rispondere positivamente alle sfide dei mercati e delle nuove tecnologie. Ma oggi non è così. Abbiamo un sistema di relazioni industriali e di contrattazione collettiva ormai superati e inadatti ad affrontare i problemi posti dalla concorrenza internazionale. Gli aumenti retributivi vengono determinati essenzialmente a livello nazionale, in modo uniforme e uguale per tutte le aziende. I contratti nazionali sono diventati talmente invadenti da togliere quasi tutto lo spazio disponibile alla contrattazione aziendale. Soprattutto la Cgil non sembra volersi muovere dalle proprie posizioni, arroccata come è nella difesa strenua del contratto nazionale. Ma si tratta di una difesa solo a parole delle ragioni della solidarietà. Dare un salario uguale a tutti, si risolve alla fine nel dare a tutti un salario basso. Se valgono i principi del merito, della responsabilità e dell’impegno, principi che a parole tutti dicono di condividere, non si vede perché non accettare anche differenze retributive legate ai risultati aziendali, se questi risultati vengono realizzati in mercati competitivi e, soprattutto, se queste differenze possono essere anche funzionali a una crescita maggiore della produttività e del reddito da lavoro. C’è un modo per spostare il baricentro della contrattazione a livello aziendale e consiste nell’affidare al contratto nazionale essenzialmente il ruolo di determinare i livelli e gli aumenti dei salari minimi sotto i quali le aziende non possono pagare i loro dipendenti. E questi livelli e questi aumenti possono valere per le aziende piccole che non pagano "extra" e che non fanno contrattazione aziendale. Ma le altre, che pagano di più e costantemente di più dei minimi, possono essere lasciate in larga misura libere di regolare – indipendentemente dal contratto nazionale – i livelli e gli aumenti delle retribuzioni dei loro dipendenti con gli stessi lavoratori e con i sindacati che li rappresentano nelle aziende. Se a livello delle singole aziende si riesce ad instaurare un clima di relazioni di lavoro di carattere partecipativo (e anche in questo deve impegnarsi il sindacato), uno scambio virtuoso tra salario e produttività sarà praticabile. Più di quanto non sia stato finora. Carlo Dell’Aringa