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 2007  novembre 22 Giovedì calendario

”Il dilemma di Israele? Bombardare l’Iran”. La Stampa 22 Novembre 2007. GERUSALEMME. «Annapolis? Annapolis is nothing, è nulla»

”Il dilemma di Israele? Bombardare l’Iran”. La Stampa 22 Novembre 2007. GERUSALEMME. «Annapolis? Annapolis is nothing, è nulla». Seduto al tavolino di un affollato caffè di Gerusalemme, lo storico israeliano Benny Morris parla con tono sostenuto, come dalla cattedra dell’università Ben Gurion. Nel locale zeppo di avvocati con doppio cellulare, amici rumorosi, giovani coppie innamorate, cala il silenzio. Per quanto il vertice americano sia dato per morto prima di nascere gli israeliani un po’ ci sperano. E Benny Morris, riccioli ribelli e ampia camicia a quadri, è un’icona, uno che i gerosolimitani riconoscono quando passa per la strada. L’Egitto ci sarà. Forse anche la Siria. Non è possibile che alla fine esca fuori qualcosa di buono? «Con o senza l’Egitto Annapolis conta zero ai fini del processo di pace. Israeliani e palestinesi non hanno neppure deciso di cosa parlare. Entrambi sono meno disposti alla mediazione di 7 anni fa a Camp David, dove pure fallirono. Oggi per Israele il problema è l’Iran, i palestinesi alla lunga sono irrilevanti». Il coinvolgimento della Siria potrebbe servire a isolare l’Iran? «Non ne sono convinto. Assad può al massimo sganciarsi da Teheran ma non può bloccare la bomba iraniana né dissuadere i mullah dal progetto di distruggere Israele. La Siria è un attore degli equilibri mediorientali, utile ma non indispensabile. Israele è andato vicino a trovare un accordo con Hafez al Assad. Sia Rabin che Barak gli offrirono il ritiro dal Golan, lui disse no. Assad padre non era interessato alla pace ma ai riflettori internazionali, come Arafat. Il figlio Bashar è più debole». Ipotizziamo un’intesa con Damasco. Sarebbe una pace fredda come quella con l’Egitto, firmata da Sadat ma rifiutata dal popolo? «Il mondo arabo non ha mai accettato la leggittimità d’Israele. Anche Paesi ”amici” come Egitto e Giordania lo considerano uno Stato assassino. Sadat non amava Israele, aveva paura che con l’atomica distruggesse l’Egitto e lo accettò. Ma né il suo governo nè quello di Mubarak hanno mai fatto nulla per mutare la mentalità del popolo, la pace sarà sempre fredda. Con i palestinesi è lo stesso. Arafat parlava di dialogo ma cresceva intere generazioni a dosi d’odio verso Israele, lo stesso che nutriva lui». La piattaforma di Annapolis è un foglio bianco. Da cosa partire? «Dei tre nodi, il più semplice da sciogliere è quello dei confini: con qualche aggiustamento ci si dovrebbe intendere sulla linea del ”67. Poi c’è Gerusalemme, sulla cui divisibilità sono scettico. A Camp David Barak era pronto a cederla secondo i parametri di Clinton ma i palestinesi rifiutarono. Oggi le condizioni sono peggiori e Barak ha imparato che il compromesso non paga. Infine ci sono i rifugiati, un rebus insolubile». Addirittura? «Il mito del ritorno è parte viva dell’identità palestinese quanto la Terra Promessa lo era del sionismo. Ci sono tre generazioni di palestinesi cresciute con l’illusione d’invertire la marcia della storia. Non discuto se sia giusto, dico che per Israele ne va della sopravvivenza: se i profughi rientrassero scompariremmo, ci annienterebbero. E nessuno qui, neppure io, può accettarlo: morale o immorale che sia». Insomma, nessuna chance di pace? «No, a meno che gli arabi cambino atteggiamento». Nel saggio ”Vittime” ricostruiva l’evacuazione dei villaggi palestinesi nel ”48. Poi spiegò che era una misura necessaria: o noi o loro. In 60 anni non è cambiato niente? «Non molto. Allora Israele doveva decidere se salvare la vita di 700 mila ebrei o cacciare gli arabi: scelse la prima, l’opzione più ”morale”. Se gli arabi fossero rimasti avremmo visto un secondo Olocausto. Anche i Paesi arabi mandarono via gli ebrei ma gli ebrei egiziani o marocchini erano sudditi leali». Il suo nuovo libro ”La prima guerra d’Israele” (Rizzoli) afferma però che qualcosa da allora è cambiato, l’ascesa dell’islam politico. «L’islam è da sempre presente nella società araba. L’Occidente si sveglia ora ma la guerra del 1948 è il primo vero jihad». Come si risolve l’affare Iran? «Le opzioni sono varie, tutte impraticabili. Il massimo sarebbe che rinunciasse spontaneamente al nucleare. O che le sanzioni funzionassero, utopia senza l’aiuto di Cina e Russia. O ancora che il regime degli ayatollah cadesse, ma è troppo ricco per implodere. C’è la via americana: Washington attacca l’Iran e con otto settimane di bombardamenti aerei rade al suolo gli impianti. Solo che gli Usa sono impantanati in Iraq e poco propensi a nuove avventure. Il cerino è nelle mani d’Israele: possiamo scegliere se convivere con l’Iran atomico, e sarebbe folle, o annientarlo. Come? Le armi convenzionali non bastano e ci resta solo l’opzione atomica, milioni di morti, uno scenario catastrofico. Questo oggi è il vero dilemma israeliano, Annapolis è nulla». FRANCESCA PACI