La Stampa 22/11/2007, pag.46 BRUNO VENTAVOLI, 22 novembre 2007
Così nacque il West. La Stampa 22 Novembre 2007. Sei arrivato troppo tardi, qui non ci sono più né indiani né cowboy»
Così nacque il West. La Stampa 22 Novembre 2007. Sei arrivato troppo tardi, qui non ci sono più né indiani né cowboy». Quando Frederic Remington arrivò entusiasta nel Montana, nel 1881, sperando di fissare sulle tele quel mondo selvaggio, lo raggelarono, dicendo che era tutto finito. Sì, forse nella realtà la grande epopea della conquista, violenta, avventurosa, eccessiva, da quelle parti si era chiusa. Ma per l’immaginario collettivo mondiale il West stava appena nascendo. Era pronto a trovare cantori alti e bassi che l’avrebbero tradotto in arte, romanzi popolari, cinema. La grande mostra America che si apre sabato a Brescia permette di capirlo nella sezione dedicata ai pittori dell’800 che fissarono l’iconologia dell’Ovest, così come noi europei l’abbiamo poi riassimilata attraverso centinaia di film, fumetti, figurine. Il Tex di Bonelli, il West di Leone o Sollima, le ombre rosse di John Ford sono tutte lì, in quelle tele, figlie del grande paesaggismo romantico, poi abilmente scese a patti con i gusti e le mode commerciali dell’epoca. Remington fu il più grande. Il più trascinante. Il più talentuoso. Sebbene arrivato un po’ in ritardo raccontò tutti gli aspetti della conquista. Pionieri alla Ricerca di nuovi pascoli, Sentinelle indiane nella notte in attesa del nemico, scontri tra cavalleggeri e nativi. Talvolta soccombono i bianchi, come nel Prigioniero. Ma i veri sconfitti sono loro, gli indiani, gli ex padroni di quelle terre. In alcuni notturni - le opere più belle di Remington, dove l’enfasi dell’epopea è venata da tremori quasi impressionisti - gli indiani diventano spettrali, inquietanti, quasi ombre di un olocausto già consumato. L’uomo rosso scacciato progressivamente dalle terre degli avi, massacrato a tradimento, ingannato con trattati che venivano sempre disattesi, dopo il 1890, dopo il vile massacro di Woundned Knee, scomparve dalla scena americana. Relegato in riserve, affogato nell’alcol, risarcito con delle farse. Basti pensare che un popolo glorioso come i cherockee oggi, nella modernità, s’è trasformato in suv. Ma fu tutto il west a scomparire. La folle corsa predatoria verso occidente del capitale americano, aveva travolto la natura, i bisonti, le civiltà che lì vivevano. E anche i coloni, i cercatori d’oro, i cacciatori, i protagonisti indomiti e pezzenti della grande frontiera, trovavano nella stragrande maggioranza dei casi solo miseria e condizioni di vita estrema. Si arricchivano soltanto le grandi compagnie, i finanzieri, gli speculatori, che non si spostavano mai dal caldo delle loro case cittadine, e comincivano già allora a stimolare le grandi bolle speculative. Quel mondo distrutto era pronto per riprendersi l’onore, a mutarsi in mito nella letteratura e nel cinema. Un uomo che da quelle parti c’era stato, come Buffalo Bill, che aveva sparato e cavalcato e pure strappato uno scalpo, con un autentico colpo di genio commerciale, nel 1883, inventò uno spettacolo che metteva in scena gli indiani, i cowboy, le diligenze. Lo portò in giro per l’America e il mondo diventando ricco. Cavalcando nell’arena con casacche colorate, stivaloni, cappellacci, e malinconici indiani ridotti a comparse. Il regista Altman ce l’ha raccontato così al cinema. Remington l’ha fissato nel quadro Buffalo Bill sotto i riflettori in bianco e nero al centro della pista, conscio di essere un fenomeno da baraccone, come il mito di cui sono entrambi demiurghi e parte integrante. Il western di maniera presentato da questi pittori era ricercato da collezionisti, ma anche dalle riviste popolari. Tant’è che le loro ambizioni estetiche sono sempre connesse al mestiere di illustratori. Il mercato voleva emozioni forti, episodi, avventure. E loro le offrivano. Talvolta, però, la malinconia trapelava per l’eden naturale stuprato e per le tribù annientate. George Catlin, tipo al tempo stesso sognatore e intigrante, girò per quelle terre incontrando migliaia di indiani prima delle guerre. Spiegava ai bianchi che quel popolo era buono, ospitale, onesto. Non usava né lucchetti né porte, eppure i furti non esistevano. Voleva fare conosce gli usi, i costumi, la spiritualità. E così li dipinse mentre danzano, mentre cacciano il bisonte ad armi pari, mentre pregano. Con la metiocolosità dell’antropologo e l’entusiasmo del filantropo. Per Charles Russell, che diventò il più grande pittore del West dopo la morte prematura di Remington, l’indiano era «l’unico vero americano». Aveva combattuto per il suo Paese, «ma ora non aveva più né voto né cittadinanza». Russell da giovane aveva fatto il cowboy nel Montana, e cominciò come affrescatore di quotidiane lotte con vacche e tori combattute da quei ragazzi che vivevano sotto un cielo di stelle. E finì come pittore di indiani che si battono, che strappano bottini ai bianchi, che scrutano le immense pianure, sapendo di essere condannati al passato. C’è una malinconia quasi proustiana per il tempo perduto, anche nel quadro Giorni lontani nel tempo che Henry Farny dipinse nel 1903, con un indiano a cavallo che emerge da una natura autunnale, seguito da moglie e figlioletto, con le tende aperte e il focolare, a dare l’impressione di una serena quotidianità. Farny era stato in una riserva Sioux e, conquistato, dedicò la vita a dipingere l’uomo rosso, nelle sue battaglie, nei suoi colori, nella sua spiritualità. Il West di Farny cerca il lato umano, l’introspezione, il silenzio, piuttosto che il fragore degli spari, il sudore della conquista, le grida della battaglia, quasi fosse un triste requiem per l’innocenza perduta di un paese. BRUNO VENTAVOLI