Renato Caprile, la Repubblica 21/11/2007, 21 novembre 2007
Dal nostro inviato Sulle macerie della madrassa della Moschea rossa, alle dieci del mattino una dozzina di ragazzini si rincorre tra risa e schiamazzi
Dal nostro inviato Sulle macerie della madrassa della Moschea rossa, alle dieci del mattino una dozzina di ragazzini si rincorre tra risa e schiamazzi. Sono vestiti tutti alla stessa maniera: shawar-kamize bianca e zucchetto scuro. Uno di loro, forse stufo del gioco, si allontana dal gruppo con l´aria serissima. Si chiama Irfan, è uno dei tanti bambini - sono centinaia - della scuola coranica che ha sfornato generazioni di jihadisti, di studenti - soldati capaci perfino di sfidare il regime di Musharraf. La Lal Majid l´hanno riaperta da poco, su ordine della Corte suprema, dopo la sanguinosa battaglia di quest´estate che ha lasciato sul terreno un centinaio di cadaveri. Dice di avere dodici anni, Irfan, ma fa tanta confusione con le date che potrebbe non arrivare a dieci. magro come un chiodo tanto che il vestito, più grande di almeno due taglie ma pulito, gli pende da tutte le parti. nato in un villaggio poverissimo, Saidpur, che dista una trentina di chilometri dalla capitale. Ultimo di una caterva di figli. Più o meno tre anni fa ha perso il padre, Abdul. In casa non c´era mai stato molto da mangiare, ma alla morte di Abdul ce n´era ancora meno. Ecco perché la madre si vide costretta, come migliaia di altre donne in questo disgraziato paese, a mettere in una borsa le poche cose della più piccola delle sue creature e portarla a Islamabad. Non aveva scelta. Solo una delle madrasse della capitale lo avrebbe potuto sfamare. E assicuragli, nella migliore delle ipotesi, anche un futuro, forse addirittura da imam. Pioveva quel giorno, ricorda Irfan, quando si sono presentati al portone di quell´immenso edificio cintato da un alto muro su cui campeggiano sure del Corano in rosso. Irfan pianse tutte le lacrime che aveva. «Mamma non mi lasciare, voglio restare con te». Ma non ci fu verso. Era quella la sua nuova casa, quello il suo destino. «Verrò a trovarti», gli disse la donna nel salutarlo, mentre un guardiano con fare paterno lo pigliava in consegna. Non è mai ritornata. Tre anni dopo, Irfan sembra integrato. «Sto bene qui: mangio, studio, ho tanti amici». Poi un velo di tristezza gli appanna lo sguardo: Faruk, uno dei suoi maestri, che gli ricordava tanto suo padre, è morto nella sanguinosa battaglia con le forze speciali. E Faruk gli manca: «Era gentile, mi trattava come un figlio. E mi insegnava soprattutto a essere un buon musulmano». Che per lui significa essenzialmente due cose: pregare e ubbidire. Se gli si chiede quali materie studi, Irfan risponde pronto: «Il libro di Dio». E per dimostrare che non sta raccontando storie attacca una incomprensibile cantilena. Intere parti del Corano recitate in arabo di cui lui però ignora il significato. «Ho appena iniziato - si giustifica - per ora devo mandarle a memoria, tra qualche anno, mi ripetono quelli più grandi, capirò tutto». Dorme in una camerata con una ventina di altri ragazzini come lui, più o meno della stessa età. La sveglia è all´alba, ma il cibo è buono e abbondante. Giocano anche, ma soprattutto pregano e studiano. Evidentemente più la prima che la seconda cosa, visto che a malapena riesce a leggere. Questi tre anni - dice con orgoglio - gli sono quantomeno serviti a capire una grande verità. La più importante di tutte: che gli uomini si dividono in due categorie. Quelli che hanno fede e quelli che non ce l´hanno. Quelli che vivono secondo le regole di Allah e quelli che invece non lo fanno. E questi ultimi rappresentano il male che se non viene estirpato può contagiare anche il migliore degli esseri umani. Per Irfan la parola terrorismo è un suono sconosciuto. Una parola vuota di significato, proprio come quelle tiritere che è costretto a ripetere a pappagallo se vuole che gli siano serviti il pranzo e la cena. L´integralismo, la strage delle due torri, l´America non sa cosa siano. Le sue nozioni di geografia si limitano a tre soli nomi: La Mecca, Islamabad e il piccolo villaggio natio. Ricorda però che in certe occasioni Faruk e gli altri erano particolarmente felici. Per cose che erano accadute da qualche parte nel mondo. Cose che dimostravano quanto Allah fosse grande. Se gli si chiede come veda il suo futuro, se pensa cioè che un giorno lavorerà, si sposerà, metterà al mondo dei figli, Irfan risponde come se quella domanda gliela avesse posta uno dei suoi istitutori: «Non sono io a decidere, sarà quello che Dio vorrà». No, non ha mai pensato di ritornare a casa. Nemmeno quest´estate, quando lui ed altri bambini facevano inconsapevolmente da scudo ai duri della Lal Majid, asserragliati nei sotterranei della moschea. «Questa è la mia casa. Qui ho decine di padri e centinaia di fratelli». E la mamma? Gli manca, anche se non vuole confessarlo. «La rivedrò. Non so dove, forse in Paradiso, ma la rivedrò». Sul concetto di martirio, Irfan sa quello che gli hanno fatto credere. «I martiri sono i migliori tra noi», ripete come è costretto a fare in classe. La morte non esiste, fa paura agli infedeli, non a un buon musulmano perché è un rinascere in un mondo perfetto. La musica, la tv, i film sono parte di quel male che va combattuto. Ha da mangiare, un letto in cui dormire e una fede che gli hanno appiccicato addosso. E gli basta. Ma c´è qualcosa di cui ha nostalgia, ammette alla fine: le carezze della madre e le storie che gli raccontava prima di addormentarsi. L´ha detto, e quasi se ne pente. Faruk non avrebbe approvato. Se ne va con l´aria triste, Irfan. I compagni lo chiamano, è ora di entrare in moschea per la preghiera. Oggi è festa ma domani tornerà ai suoi studi di aspirante suicida.