Damien Cave - Alissa J. Rubina, la Repubblica 21/11/2007, 21 novembre 2007
DAMIEN CAVE
ALISSA J. RUBIN
BAGDAD - Cinque mesi fa Suhaila al-Aasan viveva in una fabbrica di bombole d´ossigeno con suo marito e due figli, convinta che non sarebbero mai più tornati nel loro appartamento di Dora, un quartiere della media borghesia di Bagdad. Oggi invece è di nuovo a casa. Gli altri cinque o sei appartamenti del suo edificio sono disabitati e quasi ogni giorno i suoi unici vicini di casa sono i soldati iracheni. «Sono felice» racconta, «ma devono tornare anche gli altri».
La signora Aasan, 45 anni, bibliotecaria sciita, vive agli avamposti dell´esperimento di recupero della città di Bagdad ed è una dei molti iracheni che nelle ultime settimane hanno iniziato a guardarsi intorno per capire dove possano andare e che cosa possano fare ora che la paura non controlla più ogni loro mossa. Nella maggior parte dei quartieri della capitale irachena i progressi che ha fatto la sicurezza sono concreti. Adesso ci sono giorni in cui non scoppia nessuna autobomba, dopo il picco di 44 del febbraio scorso. L´esercito americano fa sapere che il numero dei cadaveri trovati in strada a Bagdad è sceso a circa cinque al giorno dai 35 di otto mesi fa e che a ottobre il numero degli attentati suicidi in tutto l´Iraq è sceso a 16, la metà rispetto all´estate scorsa.
Gli iracheni sono palesemente sorpresi e sollevati di vedere che i commerci finalmente riprendono, che ci si sposta nella capitale più facilmente a cinque mesi di distanza da quando un contingente di 30.000 uomini è arrivato dagli Stati Uniti nel Paese a ingrossare le fila dei soldati americani. La profondità e la sostenibilità dei cambiamenti restano però da verificare. A tornare nelle loro case finora sono stati 20.000 iracheni circa, una percentuale minima rispetto agli oltre quattro milioni fuggiti da tutto il Paese e al 1,4 milioni di persone che a Bagdad sono ancora sfollate, secondo il più recente censimento della Mezzaluna rossa irachena.
Il caso e l´esperienza di Aasan, che appartiene alla minoranza di iracheni che sono tornati a casa, dimostrano la portata dei progressi ma anche i loro limiti. Aasan lavora in un´oasi di calma, una piccola biblioteca di Bagdad est dove i bambini saltellano per le stanze, ridono, leggono. L´anno scorso la biblioteca era stata chiusa perché i genitori volevano tenere sempre sotto gli occhi i propri figli. Adesso la maggior parte dei bambini arriva non accompagnata, altro segno della maggior facilità di spostamento della città. Mentre parlano Aasan e il marito dicono di sentirsi rincuorati dal calo degli episodi di violenza in città e dalla presenza tangibile dei soldati iracheni a un checkpoint a pochi isolati di distanza. Eppure, la loro è stata una decisione coraggiosa, se si considera che i loro vicini non si sono ancora sentiti di prenderla. La zona nella quale abita Aasan a Dora pare desolata e il suo sembra un quartiere condannato: il marito, Fadhel A. Yassen, 49 anni, spiega che quando se ne stavano seduti fuori hanno assistito più volte all´assassinio di amici e sostiene che essere riusciti a tornare in quell´appartamento è di fatto una «vittoria sulla paura, una vittoria sul terrorismo». Nonostante tutto, però, i progressi restano rari e sporadici. Molti iracheni ancora adesso dicono che preferirebbero lasciare l´Iraq che tornare a casa propria.
A Bagdad, in effetti, le famiglie sono più simili ai Nidhal: il padre, che vuole essere identificato solo col nome di Abu Nebras è sunnita, mentre la moglie è sciita ed è originaria di Najaf. Da 17 anni vivevano a Ghazaliya, nella parte occidentale di Bagdad, quando nel dicembre scorso quattro uomini armati appartenenti alla formazione Al Qaeda in Mesopotamia si sono presentati alla loro porta. «I miei figli erano armati e quelli se ne sono andati, ma abbiamo capito che ci restavano soltanto poche ore» dice Abu Nebras. Poi continua: «Siamo stati costretti a partire perché io sono laico, e al Qaeda questo non piace». La famiglia si è rifugiata nell´area medio-borghese di Palestine Street nella parte nord-orientale di Bagdad, un´enclave relativamente stabile dove regna un´atmosfera di tolleranza per il loro matrimonio misto. Ora che la situazione è migliorata nella capitale, la famiglia Nidhal è impaziente di tornare a casa, ma non ha idea di quando o se le sarà possibile farlo. Nella loro casa, infatti, adesso vive un´altra famiglia, situazione condivisa da un terzo di tutti gli iracheni sfollati, secondo l´Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, e oltretutto non è chiaro se questa fragile pace durerà. Stando alle dichiarazioni della famiglia Nidhal, con il ritiro del contingente di supporto americano già fissato, Bagdad sarà una città davvero sicura soltanto quando le forze irachene saranno miste, quando sunniti e sciiti gestiranno insieme, fianco a fianco, i vari checkpoint, altrimenti la capitale resterà un patchwork di enclave sunnite e sciite.
(Copyright La Repubblica/The New York Times. Traduzione di Anna Bissanti)