Michele Ainis, La Stampa 21/11/2007, 21 novembre 2007
La sortita di Veltroni, raccolta da Berlusconi in questi giorni, ha messo il vento in poppa alle riforme
La sortita di Veltroni, raccolta da Berlusconi in questi giorni, ha messo il vento in poppa alle riforme. Quella elettorale, ma anche la revisione della forma di governo. Vittime ambedue di un’impotenza prolungata, e insieme fonti d’un paradosso che si riflette sulle sorti della XV legislatura. In sintesi: per una congiuntura astrale forse irripetibile, le riforme sono diventate indispensabili sia per tenere in vita il Parlamento, sia per troncarne l’esistenza. Convengono dunque a entrambi i poli. Approvarle darebbe infatti ossigeno alla maggioranza che sostiene Prodi, le consentirebbe di restare in sella con una missione chiara e condivisa; ma non approvarle impedisce di votare, pena la riproposizione dello stallo, d’un esecutivo ostaggio dei piccoli partiti, nonché della vergogna nazionale di parlamentari non eletti bensì nominati dalle segreterie politiche. Insomma il centro-sinistra vuole durare, e perciò ha necessità delle riforme; il centro-destra vuole votare, tuttavia per votare ha bisogno delle riforme a propria volta, giacché difficilmente Napolitano scioglierà le Camere se le Camere non ci libereranno anzitempo del Porcellum. Sarà per questo che di ora in ora si moltiplicano le strizzatine d’occhio fra i due eserciti nemici. E del resto la bozza Vassallo sulla legge elettorale e il testo Violante sulla riforma costituzionale rappresentano due discrete basi di partenza. La prima introduce una soglia di sbarramento occulta, forse al di là del 5% che regola la competizione politica in Germania, facendo leva sulla dimensione delle circoscrizioni elettorali, come succede in Spagna. Essa dunque innalza un argine contro la frammentazione, contro l’andirivieni delle 19 delegazioni di partito consultate da Napolitano durante la crisi del governo Prodi. La seconda corregge la Costituzione rafforzando i poteri del governo, riducendo il numero dei parlamentari, ma soprattutto amputando la singolarità di due Camere gemelle, l’una specchio dell’altra. Da qui il battesimo del Senato federale, eletto in secondo grado dalle autonomie locali. Da qui, in breve, la speranza che queste due riforme siano utili al Paese, oltre che agli interessi contingenti dei partiti. Affinché questa speranza prenda corpo, è necessario tuttavia che la politica - e i suoi rispettabili ingegneri - guarisca da una doppia malattia. In primo luogo, la sindrome dell’ippogrifo. Ossia quell’animale favoloso, immaginato da Ludovico Ariosto, che sfodera una testa d’aquila su un corpo di cavallo. Sta di fatto che da un po’ di tempo a questa parte noi italiani non riusciamo più a inventarci modelli originali, ma nemmeno ci contentiamo d’imitare il buono che si trova oltre confine. Sicché disegniamo puzzle, combinazioni, più o meno improbabili miscele; e in conclusione generiamo il mostro. Vale per il nuovo Senato: in via di principio non dovrebbe mettere piede nell’officina delle leggi, in via di fatto è titolare di nutrite competenze. Pasticci forieri di bisticci. Ma specialmente vale per la riforma elettorale, la prima pietra su cui poggia tutto l’edificio. L’impianto è un proporzionale alla tedesca, l’effetto è un maggioritario in salsa spagnola. Se non hai tre lauree in tasca, non ci capisci un fico secco. E infatti nessuno sa diagnosticare fin dove si spingerà in concreto lo sbarramento occulto per le liste minori. Nel frattempo tutti sospettano di tutti. L’unico punto chiaro - sia nella proposta Veltroni che in quella Berlusconi - è che i partiti avranno le mani libere dopo le elezioni: tu li voti, poi penseranno loro a come spendere il tuo voto. La rivincita della partitocrazia, alla faccia dei Grilli parlanti. E insieme un passo del gambero, che ci riporterebbe agli usi della prima Repubblica, con qualche partito in meno e molti vizi in più. l’altro morbo della politica: la sindrome di Peter Pan, il rifiuto di diventare adulti. Dicono che questa scelta sia obbligata perché negli ultimi quindici anni abbiamo sperimentato un bipolarismo nevrotico, e adesso c’è bisogno d’una cura. Ma non è un buon medico quello che uccide il suo paziente. micheleainis@tin.it Stampa Articolo