Maurizio Molinari, La Stampa 21/11/2007, 21 novembre 2007
Il dollaro affonda rispetto a 16 monete straniere, Wall Street contiene le perdite causate dalla crisi dei mutui, la Casa Bianca tace e la Federal Reserve ritiene che il rischio di recessione non sia incombente
Il dollaro affonda rispetto a 16 monete straniere, Wall Street contiene le perdite causate dalla crisi dei mutui, la Casa Bianca tace e la Federal Reserve ritiene che il rischio di recessione non sia incombente. Per tenere assieme tutti i tasselli del mosaico della turbolenta economia americana bisogna lasciarsi alle spalle Washington e andare in Stati come la Louisiana, l’Ohio e il New Hampshire, dove la crisi delle manifatture ha lasciato il posto a una crescita economica che a tratti somiglia a un boom. Basti pensare che nei primi sette mesi del 2007 le esportazioni del New Hampshire sono aumentate del 2%, per un valore di 2,1 miliardi di dollari, mentre nella Valle dell’Ohio, il ventre molle delle manifatture d’America, siamo oramai prossimi a livelli di piena occupazione. A sostenere la crescita economica dei singoli Stati è il dollaro debole: più scende rispetto all’euro, come anche alle valute asiatiche, più il «made in Usa» guadagna terreno. Uno dei settori in maggiore crescita è quello delle manifatture elettroniche, i pannelli solari e i computer, ovvero prodotti dove l’esportazione in genere era monopolizzata dalle economie emergenti dell’Asia. Per non parlare delle materie prime. Chris Mathis, top manager del colosso del cotone Westside Gin, afferma che «il dollaro debole ci sta aiutando a vendere i prodotti assai meglio dello scorso anno». «Non sono affatto preoccupato per l’indebolimento del dollaro», sottolinea Henry Paulson, ministro del Tesoro. Nulla da sorprendersi dunque se l’Associated Press ha condotto un sondaggio fra gli operatori di Wall Street arrivando ad affermare che «coltivatori e aziende manifatturiere in America stanno godendo di un consistente aumento delle esportazioni, che raggiungono livelli record grazie al dollaro debole, che rende i loro prodotti migliori e più competitivi all’estero». Si tratta di un’opinione molto diffusa a Wall Street, dove proprio l’aumento delle esportazioni verso i giganti dell’Asia - a cominciare da India e Cina - viene letto come un risultato dell’«economia globale» che in questo momento sta sostenendo l’economia americana, allontanando i timori della recessione. A questo bisogna aggiungere che il boom dell’export diminuisce il deficit commerciale degli Stati Uniti per la prima volta dopo cinque anni consecutivi di crescita record. I numeri lasciano pochi dubbi: in settembre l’export Usa ha fatto un balzo dell’1,1%, arrivando al record di 140,1 miliardi di dollari, facendo scendere il deficit commerciale al livello più basso dal maggio 2005, con un rafforzamento delle posizioni soprattutto nei confronti di Pechino. Da qui la ricorrente lettura che «l’export sta frenando l’impatto della crisi mutui», fino al punto da arrivare a sostenere che senza l’impennata del «made in Usa» la combinazione fra la difficoltà delle banche e la frenata dell’immobiliare avrebbe già fatto arretrare l’economia. La Casa Bianca fa bene attenzione a non avvalorare tale interpretazone ribadendo, con i propri portavoce, la politica del «dollaro forte», ma i primi a non credergli sono i neo-conservatori, come dimostra l’editoriale del magazine Weekly Standard che imputa all’amministrazione Bush una condotta ad alto rischio, perché «il calo senza freni del dollaro» potrebbe sfuggire di mano e arrivare a determinare una «disfatta dell’economia». Ma il presidente George W. Bush ama notoriamente scommettere su ciò in cui crede e in questo caso si tratta della competitività del «made in Usa». Stampa Articolo