Enzo Bettiza, La Stampa 21/11/2007, 21 novembre 2007
Ho letto che a due settimane dal decreto sono stati espulsi 177 romeni. Mi ha colpito l’esiguità dei numeri, 11 a Roma dopo lo scempio della signora Reggiani, certo scarsi rispetto alle migliaia e migliaia di immigrati arrivati dall’Est
Ho letto che a due settimane dal decreto sono stati espulsi 177 romeni. Mi ha colpito l’esiguità dei numeri, 11 a Roma dopo lo scempio della signora Reggiani, certo scarsi rispetto alle migliaia e migliaia di immigrati arrivati dall’Est. Ma, ancor più, mi ha impressionato la superficiale e falsificante connotazione etnica attribuita in blocco ai 177 espulsi: da qualche tempo, a leggere i giornali, i delinquenti degni di cacciata con accompagnamento sarebbero «romeni». O, peggio, «rumeni» con la «u» intrisa di sprezzo. Ma chi sono questi anomali profughi di tempi di pace? Da quali abissi antropologici emergono le ultime maree di disperati che, dopo l’entrata della Romania e della Bulgaria nell’Unione di Bruxelles, dilagano per l’Europa occidentale mirando in particolare ai tolleranti tepori della Penisola italica? Già in anni migliori, quando nel cuore di Roma regnava un papa slavo, si usava sveltamente definire «slavo» il primo zingaro o kosovaro albanofono piombato dai Balcani dentro la ragnatela di una cronaca nera italiana. Oggi va più di moda il delinquente «romeno». Qui la confusione è assoluta, grave, ispirata al peggiore pressappochismo giornalistico e analfabetismo culturale. La fobia popolare nei confronti degli zingari rom, che nelle borgate covava da un pezzo ed è esplosa, dopo l’omicidio di Tor di Quinto, nell’attacco indiscriminato contro incensurati cittadini provenienti dalla Romania, è stata provocata dal fatto che il presunto assassino è un rom e che quelle tre lettere sembrano comporre la metà esatta del vocabolo «romeno». Non penso che un pugno d’estremisti marginali, i quali hanno preso lucciole per lanterne e rappresentano comunque la punta di una guerriglia strisciante, sempre meno latente, tra miserabili alieni e poveri italiani, debbano conoscere la storia, l’etnografia e la cultura della Romania. Raccomanderei però almeno ai colleghi, quando scrivono, di rispettare sia lo zingaro che il romeno, non mettendoli entrambi nello stesso sacco o tirandone alla rinfusa fuori ora l’uno ora l’altro. Mi permetterei di ricordare che la Romania, la cui lingua scende da quella di Ovidio relegato da Augusto a Tomi, l’odierna Costanza sul Mar Nero, è la misteriosa eccezione romanza, è l’isola neolatina dell’estremo Oriente europeo: una rarità, archeologica e filologica, miracolosamente sopravvissuta in un oceano barbarico sul limes dacio dell’impero da cui ha ereditato il nome. L’album di famiglia, che ricollega più modernamente l’Europa ai romeni, contiene una sfilata di personalità degne di stima: dal poeta Eminescu al drammaturgo Caragiale senza il quale non avremmo Ionesco, dallo storico Nicolae Iorga ammirato da Croce al lirico delle religioni Mircea Eliade amico di Papini, dal romanziere Horia al filosofo Cioran maestro raffinato della lingua francese. Rammento di aver visto, già diversi anni addietro, sventolare dalla camera di commercio di una laboriosa città veneta la bandiera romena accanto a quella nazionale. L’altra faccia della medaglia, la faccia dolente, che non coinvolge la sola Romania ma l’intera regione balcanica, concerne purtroppo la piaga degli zingari. Oramai agli occhi e alla mente dell’italiano medio o popolano, che ne avverte sulla pelle l’oscura contiguità fisica, che li teme e li fugge, gli zingari tutti, benché diversi tra loro, si raggruppano indifferentemente nell’epitome «rom». La paura ancestrale, direi medievale, dello zigano nomade, accattone, ladro di bambini, è riemersa in forme di razzismo primario collettivo da non molto: da quando, negli anfratti di Roma e nella banlieue di Milano, si sono velocemente moltiplicate tra fiumi e discariche le tendopoli di lamiera degli indesiderabili «vagabondi». Un recente sondaggio del Corriere della Sera ha radiografato la paura: è risultato che sono tanti gli italiani che giudicano particolarmente antipatico (questa la parola usata) il «popolo rom». Oltre il 70 per cento ha dichiarato che la convivenza è impossibile. Molti suppongono che, tra crimini minori e maggiori, ne vivano in Italia addirittura due milioni. La realtà, seppure non facilmente dimostrabile e quindi opinabile, appare tuttavia diversa. Secondo stime ufficiali i «rom» sarebbero 160 mila, di cui 70 mila di cittadinanza italiana; ma sfuggono all’accertamento anagrafico quelli nascosti nei baraccamenti, non censiti, o solo approssimativamente registrati. I Balcani costituiscono il principale vivaio di provenienza. L’improvvisa calata dalle coste del Mar Nero a quelle mediterranee si spiega soprattutto con le legislazioni di Bucarest e di Sofia (le leggi jugoslave si sono diversificate tra gli Stati emersi dalle ultime guerre) che hanno conservato, nei confronti degli zingari, un certo rigore comunista. In Italia hanno potuto piantare le baraccopoli che i bulldozer romeni e bulgari, comunisti o democratici che fossero, non hanno mai risparmiato. Da questo punto di vista la Romania, dopo l’ingresso in Europa, incombe come una bomba a orologeria su grandi città come Roma, Milano, Parigi, Berlino, Madrid: si paventa che circa due milioni di rom con passaporto romeno, quindi comunitario, siano già sul piede di partenza. Il problema esiste ed è serio e va affrontato su scala non solo italiana. Il modello Sarkozy, già ministro dell’Interno nei giorni d’incendio delle banlieues, propone un diametro che va dall’accoglienza garantita alla tolleranza zero: o il nomade accetta un patto di legalità e stabilità, con stanziamento fisso e scuola d’obbligo per i figli, oppure deve risalire sulla roulotte e andarsene. Non va neppure dimenticato il modello di collaborazione riuscita fra autorità italiane e albanesi al tempo degli scafisti e dell’invasione selvaggia dall’altra sponda adriatica: Tirana, incassando notevoli sussidi, rispettò patti e restrizioni e gli sbarchi cessarono. Uno stesso tipo di collaborazione potrebbe essere offerto, nel comune quadro europeo, da Roma a Bucarest. Urge qualcosa di più concreto della retorica umanitaria. Non basta opporre l’universalità astratta del bene alla zingarofobia diffusa fra i ceti popolari, costretti a vivere a un passo da tuguri a rischio di epidemie, infestati di topi di fogna, privi d’acqua corrente, senza servizi igienici. Non basta la firma su manifesti politicamente corretti di pochi privilegiati che vivono lontani dai fetori, in superattici ovattati, saldamente protetti da introiti sicuri, da sofisticati congegni antifurto e anche da guardie del corpo. Un certo antirazzismo parolaio d’alto rango, che vede rigurgiti nazifascisti e se la prende con la globalizzazione, non serve a niente; nemmeno alla salvezza degli zingari migliori che condannano i peggiori e vorrebbero vivere da cittadini stanziali e normali in abitazioni decenti. Può servire, tutt’al più, a offendere gli italiani dimessi che nelle periferie patiscono una quotidianità magra e pericolosa, con pochi euro al mese, a contatto stremante e umiliante con la propria e l’altrui miseria. Stampa Articolo