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 2007  novembre 20 Martedì calendario

”Se zio Osama torna in Yemen lo accoglierò”. La Stampa 20 Novembre 2007. AL RUBAT (Yemen). In fondo a una vallata rocciosa che si snoda per chilometri a oriente delle sabbie del Ramlat as-Sab’atayn, uomini inturbantati si ritrovano all’ombra di monoliti in fango e paglia simili a grossi alveari, abitati da generazioni che si perdono nel passato

”Se zio Osama torna in Yemen lo accoglierò”. La Stampa 20 Novembre 2007. AL RUBAT (Yemen). In fondo a una vallata rocciosa che si snoda per chilometri a oriente delle sabbie del Ramlat as-Sab’atayn, uomini inturbantati si ritrovano all’ombra di monoliti in fango e paglia simili a grossi alveari, abitati da generazioni che si perdono nel passato. Le donne, completamente velate di nero, si trascinano come fantasmi per i campi coltivati e nei vicoli ripidi. Nei cortili, i bambini importunano gli asini e inseguono le capre. L’aria odora di carne alla brace e sterco. Il lamento di un muezzin rimbalza sulle pareti del canyon e vibra tutt’intorno, richiamando i fedeli alla preghiera del venerdì. La «Bin Laden Street» è circondata da gruppetti di fedeli persi nelle chiacchiere del primo pomeriggio. Tra i più anziani c’è chi ha conosciuto Mohammad bin Laden, il benefattore, l’uomo che più di settanta anni fa si lasciò alle spalle queste case e si unì al flusso di migranti che cercavano fortuna lontano da qui. Prima facchino, poi imprenditore, il giovane yemenita riuscì - col tempo e con l’astuzia - ad entrare nelle grazie della famiglia reale saudita, ottenendo così il monopolio degli appalti pubblici e diventando miliardario a capo di una delle più importanti multinazionali della regione. Sposò più di venti donne ed ebbe cinquantacinque figli (due in meno del fratello Abdullah). Tuttavia al momento della sua morte, avvenuta nel 1967 in un incidente aereo, il signor Bin Laden non poteva sapere che il suo diciassettesimo nato, Osama, sarebbe diventato, una trentina d’anni dopo, l’uomo più ricercato del pianeta: ovvero il capo di un’organizzazione terroristica responsabile di una lunga serie di attentati, culminati con quello che - l’11 settembre 2001 - avrebbe cambiato il corso della storia contemporanea. Dai suoi nascondigli tra Pakistan e Afghanistan, Osama bin Laden non ha mai fatto mistero di voler fare ritorno alle origini nel villaggio paterno, nelle regioni orientali dello Yemen: un luogo ideale per nascondersi, con l’aiuto di gruppi wahabiti e di una tribù semi-nomade di Sayyid, il titolo che si attribuiscono i discendenti di Maometto, alleata dell’élite reale saudita. A parlare con gli abitanti di Al Rubat e della regione circostante, tuttavia, l’impressione è che di Osama bin Laden si voglia dire il meno possibile. Se il padre Mohammad è visto come un esempio di bontà e virtù - la strada asfaltata che collega Al Rubat con il resto del mondo è stata una gentile concessione del suo gruppo - il nome del capo di Al Qaeda genera solo scrollate di spalle. «In Occidente si crede che la maggior parte degli yemeniti siano suoi sostenitori o comunque fiancheggiatori di terroristi», si lamenta Mohammad bin Saleh, un commerciante della regione. «La realtà è che non lo amiamo affatto. Per secoli, questa è stata una regione pacifica e tranquilla. Per colpa sua ci siamo ritrovati l’esercito dislocato in tutta la zona». Ahmed Mohammad, una guida che accompagna turisti europei e giapponesi su e giù per il canyon del Wadi Da’wan, ci va giù ancora più pesante: «Tutto quel sangue, tutti quei morti ammazzati. Perché? I veri musulmani non sono come lui. Siamo persone perbene. E poi questa storia di Al Qaeda è un pessimo affare, perché tiene lontani i turisti e toglie lavoro a molta gente». La casa di Abdallah bin Laden, fratello di Mohammad e zio di Osama, è un grande edificio bianco, non lontano dalla strada principale. Da quando il proprietario è morto cinque anni fa, non ci abita più nessuno. A pochi metri di distanza c’è la casa dell’unico membro della famiglia Bin Laden rimasto qui ad Al Rubat: Khaled al Omeiri, nipote di Osama, nonché meccanico del villaggio. Fuori dalla sua officina c’è un giovane insegnante di scuola, che lo sta cercando per dare una sistemata al motore. Khaled non c’è. Un febbrone da cavallo l’ha tenuto inchiodato a letto, anche se è disponibile a ricevere l’inaspettato ospite («così vuole Allah»). La sua casa è moderna e spaziosa, anche se non sembrerebbe appartenere all’erede di una delle famiglie più facoltose della Penisola Arabica. Un grosso televisore trasmette il sermone di uno sceicco saudita, alternato alle immagini di pellegrini che si affollano intorno alla Kabah, nella città santa della Mecca. E seduto in un angolo, eccolo lì, il nipote di Osama bin Laden, che manda giù aspirine avvolto in grosse coperte, con una temperatura esterna che si aggira intorno ai 30 gradi. Mentre i suoi due figli versano il the, Khaled racconta la sua storia. Suo nonno Abdullah era partito per l’Arabia Saudita negli anni ’70, molto dopo Mohammad, lasciando il villaggio dopo essersi inimicato i membri del partito socialista locale (se non altro ha avuto qualcosa in comune con Osama, che poco dopo era finito in Afghanistan a scontrarsi con i sovietici). Poi era tornato ad Al Rubat. Anche Khaled aveva tentato fortuna oltre confine, una decina d’anni fa, ma senza successo. Meglio starsene tra la propria gente, in un villaggio tranquillo ai confini del mondo. Lo stesso villaggio in cui Osama ha detto di voler tornare, almeno idealmente. «Se così fosse, lo accoglierei senz’altro», dice l’uomo, «un parente è un parente, abbiamo lo stesso stesso sangue. Per questo motivo dobbiamo aiutarci in qualsiasi situazione. Lo dicono le sacre scritture». Ma Khaled non si fa problemi ad ammettere apertamente di essere contrario alle attività terroristiche dello zio. «Se il Corano ci dice di aiutare i parenti in qualsiasi circostanza, esso ci insegna anche ad evitare con fermezza qualsiasi forma di violenza. Per questo non approvo quello che fa zio Osama. Sono un uomo pacifico, che segue fedelmente la propria religione e rispetta gli altri». La piccola moschea sulla strada principale di al-Rubat, conosciuta anche come «Bin Laden Street», è circondata da gruppetti di fedeli persi nelle chiacchierare del primo pomeriggio. Tra i più anziani c’è chi ha conosciuto Mohammad bin Laden, il benefattore. Tutti ne parlano con il sorriso sulle labbra, indicando la sua prima casa, lassù in cima al villaggio, o raccontando la storia dei suoi successi, o di quella volta che tornò per una visita. Ma quando si chiede un’opinione su Osama, sul suo jihad, su Al Qaeda, le facce diventano scure e la risposta è sempre la stessa: «Non è un vero yemenita. Non è uno dei nostri. Non siamo affatto fieri di lui». PABLO TRINCIA