Corriere della Sera 20/11/2007, pagg.1-49 PHILIP ROTH, 20 novembre 2007
Mio padre, l’uomo che ho scoperto mentre stava morendo. Corriere della Sera 20 novembre 2007.A 86 anni mio padre aveva perso quasi per intero la vista dall’occhio destro, ma per tutto il resto sembrava godere di una salute fenomenale per un uomo della sua età quando fu colpito da quella che il medico della Florida diagnosticò, sbagliando, come paralisi di Bell, un’infezione virale che provoca la paralisi, di solito temporanea, di un lato del viso
Mio padre, l’uomo che ho scoperto mentre stava morendo. Corriere della Sera 20 novembre 2007.
A 86 anni mio padre aveva perso quasi per intero la vista dall’occhio destro, ma per tutto il resto sembrava godere di una salute fenomenale per un uomo della sua età quando fu colpito da quella che il medico della Florida diagnosticò, sbagliando, come paralisi di Bell, un’infezione virale che provoca la paralisi, di solito temporanea, di un lato del viso. La paralisi si manifestò di punto in bianco il giorno dopo che era volato dal New Jersey a West Palm Beach per trascorrere i mesi invernali condividendo un appartamento in subaffitto con una contabile settantenne in pensione, Lillian Beloff, che a Elizabeth abitava sopra di lui e con cui mio padre aveva intrecciato una relazione un anno dopo la morte di mia madre, nel 1981. All’aeroporto di West Palm si sentiva così bene che non si era nemmeno curato di cercare un facchino (al quale, perdipiù, avrebbe dovuto dare la mancia) e aveva portato da solo la valigia dall’area ricevimento bagagli fino al posteggio dei taxi. Poi, la mattina dopo, guardandosi nello specchio del bagno vide che metà del suo viso non era più sua. L’uomo che il giorno prima assomigliava a lui, ora non assomigliava più a nessuno: la palpebra inferiore dell’occhio danneggiato faceva una borsa che rivelava l’interno della cavità oculare, la guancia da quel lato era floscia e senza vita come se sotto la pelle fosse stato tolto l’osso, e le labbra non erano più dritte ma tirate giù diagonalmente attraverso il viso. Con la mano rimise la guancia destra dove l’aveva lasciata la sera prima, tenendovela finché non ebbe terminato di contare fino a dieci. Ripeté l’operazione diverse volte, quel mattino – e altrettanto spesso nei giorni che seguirono, ma quando lasciava la pelle della guancia, questa non rimaneva al proprio posto. Provò a dirsi che forse aveva dormito in una posizione sbagliata, che la pelle era così solo perché era stata corrugata dal sonno, ma quello che pensava era di aver avuto un ictus. Suo padre era stato paralizzato da un ictus all’inizio degli anni Quaranta, e quando sarebbe toccato a lui diventare vecchio, mi disse parecchie volte: «Non voglio fare la sua fine. Non voglio rimanere là disteso. Questa è la mia paura più grande». Mi raccontò di quando faceva una scappata all’ospedale la mattina presto mentre andava in ufficio, in centro, e di nuovo la sera mentre tornava a casa. Due volte al giorno accendeva una sigaretta e la metteva tra le labbra di suo padre, e la sera si sedeva al suo capezzale per leggergli il giornale in yiddish. Immobilizzato e impotente, con l’unico conforto di una sigaretta, Sender Roth resistette per quasi un anno, e fino al momento in cui un altro ictus lo spacciò una sera tardi del 1942, mio padre, due volte al giorno, rimase là seduto a guardarlo mentre moriva. Il medico che disse a mio padre che aveva la paralisi di Bell gli assicurò che in breve tempo quasi tutta, se non tutta, la paralisi facciale sarebbe scomparsa. E questa prognosi gli venne confermata, in pochi giorni, da tre persone diverse che abitavano nella stessa ala del grande condominio e che avevano avuto lo stesso disturbo ed erano guarite. Una di esse aveva dovuto aspettare quasi quattro mesi, ma alla fine la paralisi se n’era andata misteriosamente com’era venuta. La sua non se ne andò. Presto smise di sentirci dall’orecchio destro. Il dottore della Florida esaminò l’orecchio e misurò la perdita dell’udito, ma gli disse che non c’entrava con la paralisi di Bell. Era solo una cosa che veniva con l’età: probabilmente aveva perso l’udito dall’orecchio destro con la stessa gradualità con cui aveva perso la vista dall’occhio destro, e se n’era accorto solo adesso. Questa volta, quando mio padre domandò per quanto tempo ancora il medico pensava che avrebbe dovuto aspettare prima che la paralisi di Bell se ne andasse, il medico gli disse che nei casi che duravano così a lungo come il suo, certe volte non spariva mai. Ma consideri le sue fortune, disse il medico; a parte l’occhio cieco, l’orecchio sordo e la faccia semiparalizzata, era sano come un uomo di vent’anni più giovane. Quando gli telefonavo, ogni domenica, si sentiva che a causa della bocca storta il suo modo di parlare era diventato confuso e difficile da seguire: certe volte sembrava uno appena uscito dall’ambulatorio del dentista, uno in cui non si fosse completamente esaurito l’effetto della novocaina; quando andai a trovarlo in Florida, rimasi allibito dalla scoperta che, a vederlo, sembrava quasi del tutto incapace di parlare. «Allora, – disse nell’atrio del mio albergo, dove li stavo aspettando, lui e Lil, per andare a cena, – che ne pensi?». Furono le sue prime parole, pronunciate mentre mi chinavo per baciarlo. Era sprofondato di fianco a Lil in un divanetto, ma il suo viso era puntato verso di me, così vidi cos’era successo. Nel corso dell’ultimo anno aveva portato saltuariamente una benda nera sopra l’occhio cieco per evitare che la luce e il vento lo irritassero, e tra la benda, la guancia, la bocca, e il fatto che era molto dimagrito, mi sembrava che si fosse orribilmente trasformato – nelle cinque settimane dall’ultima volta che l’avevo visto a Elizabeth – in un vecchio stanco e debilitato. Era difficile credere che appena sei anni prima, l’inverno dopo la morte di mia madre, quando divideva con Bill Weber l’appartamento di Bal Harbour del suo vecchio amico, non facesse fatica a convincere le ricche vedove del palazzo – che avevano subito cominciato a ronzare, interessate, attorno al nuovo e socievole vedovo con la giacca leggera di tela indiana a strisce e i calzoni color pastello – di aver appena compiuto settant’anni, nonostante ci fossimo tutti radunati per festeggiarne l’ottantesimo compleanno l’estate prima nella mia casa nel Connecticut. Durante la cena in albergo cominciai a capire che razza di handicap era la paralisi di Bell, al di là del fatto che sfigurava chi ne rimaneva vittima. Ormai mio padre poteva bere solo con la cannuccia, altrimenti il liquido gli usciva dalla metà paralizzata della bocca. E mangiare era uno sforzo estenuante, anzi: ogni boccone era uno sforzo estenuante, causa di frustrazione e imbarazzo. Con grande riluttanza acconsentì, dopo essersi macchiato la cravatta con la minestra, a concedere che Lil gli mettesse un tovagliolo intorno al collo: ne aveva già uno sulle ginocchia, che più o meno gli proteggeva i pantaloni. Ogni tanto Lil si avvicinava col proprio tovagliolo e, con suo evidente fastidio, toglieva un pezzetto di cibo che gli era scivolato fuori dalla bocca e gli aderiva al mento a sua insaputa. Diverse volte gli ricordò di prendere meno cibo con la forchetta e di provare, a ogni boccone, a infilarne in bocca un po’ meno di quanto fosse abituato a fare. «Sì, – borbottava lui, guardando nel piatto, sconsolato, – sì, certo», e dopo due o tre bocconi lo dimenticava. Era per questo, perché mangiare era diventata per lui una prova terribile e deprimente, che era tanto dimagrito e sembrava così pateticamente denutrito. A rendere ancora più difficile ogni cosa era il fatto che negli ultimi mesi gli si erano ulteriormente opacizzate le cataratte che aveva a entrambi gli occhi, col risultato che adesso era diventata confusa anche la vista dell’occhio buono. Per vari anni il mio oftalmologo di New York, David Krohn, aveva seguito il progresso delle cataratte di mio padre e affrontato il problema del deterioramento della sua vista, e quando, in marzo, mio padre fece ritorno nel New Jersey dal suo infelice soggiorno in Florida, andò a New York a pregare David di togliergli la cataratta dall’occhio buono; avendo le mani legate davanti alla paralisi di Bell, era particolarmente ansioso che si facesse qualcosa per restituirgli la vista. Ma nel tardo pomeriggio del giorno dopo la visita di mio padre, David telefonò per dire che non intendeva operarlo all’occhio finché altri esami non avessero determinato la causa della paresi facciale e della perdita dell’udito. Non era convinto che si trattasse della paralisi di Bell. Aveva ragione. Harold Wasserman, il medico di mio padre nel New Jersey, gli aveva fatto fare la risonanza magnetica chiesta da David, e quando Harold ricevette il referto del laboratorio mi telefonò la sera stessa per darmi i risultati. Mio padre aveva un tumore al cervello, «un tumore massivo», come diceva Harold, e dalle immagini della risonanza magnetica non si riusciva a capire se era benigno o maligno. «In un modo o nell’altro, – disse Harold, – questi tumori ti ammazzano». Il passo successivo consisteva nel consultare un neurochirurgo, per determinare con precisione che razza di tumore era e cosa si poteva fare, se si poteva fare qualcosa. «Io non sono ottimista, – disse Harold, – e non dovresti esserlo neanche tu». PHILIP ROTH