La Repubblica 20/11/2007, pag.42 MASSIMO RIVA, 20 novembre 2007
SULLA FLESSIBILIT SI GIOCA LA DEMOCRAZIA
La Repubblica 20 novembre 2007. Sono così rare di questi tempi le voci fuori del coro che allarga mente e spirito seguirne qualcuna, per giunta ben articolata per scrupolo di analisi, solidità degli argomenti, capacità di disvelamento di diffuse ma anche false credenze. Tanto più se l´originalità dell´approccio riguarda un tema - il mercato del lavoro - oggi cruciale per l´assetto sociale e la crescita economica del nostro paese e, in generale, di quel mondo occidentale nel quale appaiono più radicati che altrove i principi e le regole della democrazia politica. E´ questo il caso dell´ultimo libro di un´autorità in materia, Luciano Gallino: Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità (Laterza, pagg. 172, euro 14).
Come si vede, fin dal titolo l´autore afferma con chiarezza il suo proposito di collocarsi contro l´onda montante del pensiero unico prevalente nel dibattito culturale e nella gestione politica dei paesi occidentali, secondo il quale soltanto attraverso una più ampia diffusione di contratti di lavoro flessibili Europa e Stati Uniti potranno reggere nella competizione selvaggia ingaggiata dalle economie, soprattutto asiatiche, dove diritti e salari della manodopera sono ancora a livelli che da noi si definirebbero ottocenteschi. Ma va anche detto che un primo apprezzabile pregio del libro consiste nel fatto che Gallino evita ogni scivolata nella pura polemica ideologica e, anzi, si sforza in continuazione di poggiare le sue tesi su una disamina accurata di cifre, dati, studi spesso prodotti proprio da quelle fonti che più sostengono l´ineluttabilità del lavoro flessibile.
Cosicché la lettura del volume porta a fare una serie di scoperte su aspetti insospettati della realtà effettiva del mercato del lavoro, indicando come esso si sia già trasformato in profondità perfino in Italia, paese che secondo l´opinione dominante sarebbe un fanalino di coda nella corsa alla flessibilità. Ebbene, pur mettendo in guardia sulla difficoltà di fare stime precise per la strutturale inaffidabilità delle rilevazioni ufficiali e quindi soppesando con grande prudenza critica dati spesso contraddittori, Gallino arriva a quantificare in non meno di dieci-undici milioni i lavoratori che nel nostro paese già ora sono coinvolti nelle varie tipologie di impieghi flessibili, circa la metà dei quali attribuibili all´economia sommersa.
Non c´è qui spazio per riassumere i ragionati passaggi logici che portano lo studioso a questa valutazione. Ma lascia abbastanza attoniti il fatto che egli porta alla luce una realtà misconosciuta un po´ da tutti. Tanto dalle statistiche ufficiali, che ancora nel giugno scorso stimavano in appena 2,1 milioni i lavoratori dipendenti con contratti a termine. Quanto dalla gran parte delle pur autorevoli voci che non perdono occasione pubblica per reclamare maggiori dosi di flessibilità come unica via di salvezza per l´economia nazionale.
Ma ciò che Gallino denuncia non è soltanto una ben nascosta dimensione quantitativa del fenomeno. Più acuta riflessione egli chiama a fare sui costi, oggi individuali e domani sociali, di una precarizzazione così diffusa delle attività lavorative, avvertendo che i fautori della società flessibile su modello della nuova organizzazione del sistema delle imprese forse non si rendono conto di creare i presupposti non di una comunità di uomini liberi e autonomi ma di una società disarticolata e perciò pericolosamente esposta anche sul versante della tenuta delle istituzioni democratiche.
Certo, egli consente sul fatto che all´origine degli scossoni intervenuti sul mercato del lavoro c´è l´ingresso sulla scena economica mondiale di nuovi protagonisti (dalla Cina all´India fino ai paesi dell´ex-blocco sovietico) che hanno sconvolto il vecchio schema della divisione internazionale del lavoro. In modi per cui - come si sintetizza nel libro - «si sono posti in concorrenza fra loro un miliardo e mezzo di nuovi lavoratori globali aventi diritti e salari minimi con poco più di mezzo miliardo di lavoratori aventi diritti e salari elevati».
Ed ecco il punto: Gallino avverte che quelle condizioni di lavoro così fortemente competitive convivono con assetti politico-istituzionali in gran parte autoritari o comunque di fragile e malcerta democrazia. In altre parole, lancia un serio allarme sul rischio che, inseguendo modelli nazionali di basso costo del lavoro, anche le società dell´Occidente democratico possano regredire perfino sul terreno delle libertà politiche.
Una messa in guardia eccessiva? A prima vista, forse. Ma un´altra realtà inquietante su cui Gallino richiama l´attenzione riguarda il ruolo che le grandi imprese internazionalizzate giocano nel conflitto fra il miliardo e mezzo di lavoratori senza tutele e il mezzo miliardo di più protetti. Se si guarda al caso della Cina, per esempio, si scopre che oltre il 55 per cento delle merci esportate in Occidente non viene da autonome industrie cinesi, ma è prodotto in quel paese da imprese americane o europee. Sono, insomma, queste ultime a guidare e gestire la concorrenza ai lavoratori occidentali, le stesse che poi reclamano più flessibilità nelle rispettive patrie. Tanto che fra il 2006 e il 2007 è stata proprio la pressione delle grandi imprese occidentali a indurre il governo di Pechino ad emendare pesantemente al ribasso la nuova legge sui contratti per i lavoratori cinesi.
Come uscire da questa stretta? Gallino indica alcune soluzioni razionali per una graduale diminuzione degli squilibri esplosi con la globalizzazione dei mercati. Ma le accompagna anche con scarse speranze di praticabilità, constatando la sudditanza delle autorità politiche occidentali nei confronti dei veri gestori di questo conflitto su entrambi i fronti: le grandi imprese internazionalizzate. Chi non abbia ancora letto il suo precedente L´impresa irresponsabile potrà trovarvi le ragioni di tanto lucido pessimismo. Basterà ricordare, del resto, che l´espressione «irresponsible corporation» è di Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti un secolo fa. Cent´anni passati invano?
MASSIMO RIVA