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 2007  novembre 18 Domenica calendario

PENA DI MORTE LA MORATORIA UN’ UTOPIA NON RISOLVE I PROBLEMI

Corriere della Sera 18 novembre 2007. La risoluzione per una moratoria sulla pena di morte, promossa dall’Italia e approvata dalla commissione per i Diritti umani dell’Assemblea generale dell’Onu, ha ispirato in numerosi commentatori una tesi antiamericana.
Appoggiando la pena capitale, dicono, gli Stati Uniti s’iscrivono in un novero di Paesi oltremodo deprecabili: Cina, Iran e Siria, ad esempio. Gli stessi Paesi che, a ogni piè sospinto, gli Stati Uniti additano quali nemici della libertà. Eppure, scorrendo l’elenco dei volenterosi boia, ecco spuntare altri Paesi molto più interessanti: l’India e il Giappone, ovvero due delle maggiori democrazie al mondo, indubbiamente amiche della libertà. Raramente, su una questione come la pena di morte, sono la democrazia o la libertà a fare da spartiacque.
In quasi tutte le democrazie, in realtà, se si promuovesse un referendum sull’introduzione della pena di morte, un’ampia maggioranza dei cittadini si schiererebbe a favore. Si tratta di una pena popolare giacché, nell’opinione pubblica, la sete di vendetta e castigo è un fattore determinante nella riflessione sulla criminalità. Generalmente, gli oppositori della pena di morte fondano le loro rivendicazioni sull’idea che uccidere un individuo, foss’anche un omicida o un terrorista, è un gesto barbaro e inumano. Purtroppo, l’opinione pubblica stessa è alquanto barbara e inumana.
A mio parere, l’argomentazione migliore, e anche la più corretta, contro la pena capitale è quella che ne sottolinea l’irrevocabilità, dunque l’iniquità.
Nessun sistema giudiziario, nessuno, è immune dall’errore. Quando viene comminata una pena capitale, a tali errori non è più possibile porre rimedio: è troppo tardi. La negazione permanente della possibilità di fare appello, o di dimostrare che è stato commesso un errore, infine, è a mio avviso sintomatica di un deficit di giustizia.
Esistono diversi gradi di ingiustizia, però. In Cina non esiste sostanzialmente alcuna possibilità di fare appello contro una condanna a morte. La magistratura non è indipendente dal Partito comunista, la legge è spesso applicata in modo arbitrario, e i diritti dell’imputato sono assai limitati. Per tale ragione, non è esatto sostenere che, mettendo a morte chi si è macchiato di omicidio, Stati Uniti e Giappone si dimostrino barbari ed esecrabili quanto la Cina o l’Iran.
Chiunque, in America e in Giappone, sia giudicato colpevole di omicidio e condannato a morte, si vede ampiamente riconosciuto il diritto di presentare appello.
I sistemi giudiziari di questi Paesi sono indipendenti e trasparenti. I diritti dell’imputato sono chiaramente sanciti e tutelati. In ultima istanza, un assassino riconosciuto colpevole può essere messo a morte, ma soltanto dopo avere fatto ripetutamente appello. La pena di morte in tali Paesi resta ingiusta, a mio parere, poiché il rischio di commettere errori permane. Ma il loro sistema giudiziario è di gran lunga più giusto e morale di quello vigente nella Repubblica Popolare cinese, in Iran o in Siria.
Quest’ultima considerazione trova un’ulteriore conferma nel modo in cui numerosi Stati americani hanno sospeso il ricorso alla pena di morte, a seguito di palesi errori giudiziari. Un sistema costituzionale democratico deve prevedere una serie di checks and balances, di controlli e contrappesi, atti a impedire pericolosi abusi della pena capitale.
L’iniziativa guidata dall’Italia in seno alla commissione per i Diritti umani dell’Onu è lodevole sul piano morale, ma è destinata a fallire. I Paesi con regime autoritario, come la Cina, sono intenzionati a mantenere in vigore la pena di morte. Direi anche, però, che iniziative come questa mirano al bersaglio sbagliato. I nodi cruciali sul piano dei diritti umani e del diritto penale non riguardano il tipo di pena adottata, bensì il procedimento attraverso cui un criminale è accusato e condannato.
Se si classificano i Paesi in base all’imparzialità e alla correttezza o meno del procedimento giudiziario, il risultato non è affatto sorprendente: Italia, America, Giappone e India s’iscrivono nel novero in cui vige il principio di giustizia e legalità; Cina, Iran e altre dittature, invece, compaiono nella schiera di nazioni in cui lo stesso principio viene ignorato.
BILL EMMOTT