Corriere della Sera 18/11/2007, pag.33 GIOVANNI BELARDELLI, 18 novembre 2007
Lotta alla mafia, il trucco del Duce. Corriere della Sera 18 novembre 2007. probabile non siano in molti a sapere che il notissimo articolo di Sciascia sui «professionisti dell’antimafia », pubblicato sul «Corriere» nel gennaio 1987, traeva spunto dal libro che uno storico inglese, Christopher Duggan, aveva dedicato alla mafia durante il fascismo
Lotta alla mafia, il trucco del Duce. Corriere della Sera 18 novembre 2007. probabile non siano in molti a sapere che il notissimo articolo di Sciascia sui «professionisti dell’antimafia », pubblicato sul «Corriere» nel gennaio 1987, traeva spunto dal libro che uno storico inglese, Christopher Duggan, aveva dedicato alla mafia durante il fascismo. L’opera era di grande interesse, come lo scrittore siciliano non mancava di sottolineare, anzitutto perché sollevava molti dubbi sul modo in cui, negli anni Venti, il prefetto Cesare Mori aveva combattuto la mafia e sui risultati che questa lotta aveva realmente prodotto. Ma il fatto che Sciascia spostasse il discorso su questioni più attuali, e poi le violente polemiche suscitate dal suo articolo, fecero dimenticare o quasi il libro che ne era stato all’origine. anche per questo che lo studio di Duggan, ripubblicato a vent’anni dalla prima edizione ( La mafia durante il fascismo, Rubbettino, pagine 299, e 10), mostra di aver conservato gran parte della sua novità. A sollevare molti interrogativi, a giudizio di Duggan, era già la prima, grande operazione antimafia condotta al principio del 1926 contro i banditi delle Madonie, che secondo Mori doveva dare l’idea della determinazione con cui, forte dell’appoggio di Mussolini, egli intendeva muoversi. Alcuni dei metodi impiegati, come la cattura dei familiari dei mafiosi quali ostaggi, appaiono certamente discutibili. Come discutibili erano certe convinzioni da cui Mori si lasciava guidare: «La figura del mafioso – scrisse – si percepisce soprattutto per intuito: si indovina, si sente». Era un’affermazione sconcertante, tanto più che lo stesso Mori ammetteva di aver scambiato «assai di frequente» uomini onesti per mafiosi. Uno dei limiti principali della sua azione, nota Duggan, dipendeva dall’idea che la mafia fosse legata essenzialmente ai gabellotti, i grandi affittuari che prendevano in gestione la terra dai latifondisti per subaffittarla ai contadini. L’essersi ispirato a questo convincimento finì col condurre Mori a fare gli interessi dei grandi proprietari terrieri, considerati invece in blocco come vittime della mafia. «Il risparmiare le classi elevate – scrisse allora un’osservatrice inglese – ha portato a un grave scontento ed importanti mafiosi sono stati lasciati in libertà». Ben presto gli arrestati arrivarono a contarsi a migliaia (nella provincia di Palermo furono cinquemila solo nel 1926); che tutti fossero delinquenti pare da escludere visto che in molti casi all’origine dell’arresto c’era solo la diceria che Tizio o Caio fosse mafioso. «Tutti i nomi che risultano nelle mie dichiarazioni – affermò ad esempio un teste – furono fatti non già da me, ma dai carabinieri e dal giudice, ed io a loro domande ho confermato che erano mafiosi, non perché li conoscessi personalmente ma per averlo inteso ». Quanto alle imputazioni, nella maggior parte dei casi ci si limitò a quella di «associazione per delinquere », senza poter contestare reati specifici vista l’assenza di prove e la scarsità di testimonianze attendibili. In sostanza, come scriverà successivamente un magistrato, l’azione contro la mafia aveva trattato allo stesso modo uomini onesti e criminali. Spesso i processi, che si trovavano a dover giudicare un gran numero di imputati e in poco tempo, furono quasi una farsa. «I membri della giuria – è il commento di Duggan – devono essersi trovati a volte in difficoltà semplicemente a ricordare di chi si stesse parlando». L’azione di Mori contro la mafia, notava vent’anni fa Sciascia, era stata anche «strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile» (ecco perché il libro gli aveva dato lo spunto per parlare dei «professionisti dell’antimafia »). Il libro documenta infatti come l’accusa d’aver intrattenuto rapporti con la mafia divenisse l’arma decisiva per epurare il fascismo siciliano dai suoi esponenti intransigenti, a cominciare dal federale di Palermo – il «farinacciano» Alfredo Cucco – contro cui Mori mise insieme ben 27 capi di imputazione (Cucco sarebbe poi stato assolto da tutte le accuse). La drastica epurazione – parallela a quella che il segretario del Pnf Augusto Turati conduceva a livello nazionale – cambiò radicalmente i vertici del fascismo isolano. Ma non è affatto detto che i nuovi capi, spesso vicini agli agrari, fossero più lontani dalla mafia dei vecchi. Per il regime di Mussolini non era importante tanto che la mafia fosse stata sconfitta davvero, quanto che una simile opinione fosse diventata – grazie a Mori – pressoché generale in Italia e all’estero: «Mussolini – scrisse il "Times" nel 1928 – ha osato minacciare il mostro nelle sue tane native e lo ha strangolato con successo». Una volta accreditato al fascismo un tale risultato, del prefetto Mori si poteva anche fare a meno: nel giugno 1929 un telegramma del Duce gli comunicava il collocamento a riposo. Per il resto del Ventennio, visto che secondo la versione ufficiale la mafia era stata eliminata, anche la parola fu messa al bando; quando se ne parlava, come nell’Enciclopedia italiana del 1934, si usava ormai il passato remoto. Tutto ciò – nota Duggan – fornì probabilmente ai mafiosi un «eccezionale scudo» dietro il quale continuare ad operare indisturbati. GIOVANNI BELARDELLI