La Repubblica 18/11/2007, pag.28 MICHELE SERRA, 18 novembre 2007
E la Linea si innamorò. La Repubblica 18 novembre 2007. La Linea di Osvaldo Cavandoli è una delle non poche eccellenze italiane che hanno fatto il giro del mondo, ma la bibliografia in materia è piuttosto risicata, e anche passeggiando per internet non è che se ne trovi grande traccia
E la Linea si innamorò. La Repubblica 18 novembre 2007. La Linea di Osvaldo Cavandoli è una delle non poche eccellenze italiane che hanno fatto il giro del mondo, ma la bibliografia in materia è piuttosto risicata, e anche passeggiando per internet non è che se ne trovi grande traccia. Né la Linea né il suo autore sono circonfusi dall´aura mitica, "cult" e anche iper-culturale che avvolge molti maestri del fumetto e del disegno animato. Tanto che qualche misurato e rammaricato saluto - quando Cavandoli muore, ottantasettenne, pochi mesi fa - lo tratta da maestro "dimenticato". In realtà la Linea, se avesse ancora la parola, potrebbe rivendicare, con la sua caratteristica e comica animosità, una storia profondamente differente da quella del fumetto d´arte italiano o francese, così letterario, così intellettuale. Cavandoli era un tecnico (anzi un "tennico", come si dice nella sua Milano). Un disegnatore meccanico nato professionalmente in Alfa Romeo, dove lavorò da apprendista prima della guerra (era nato sul Garda nel gennaio del ”20, visse sempre a Milano). Poche scuole alle spalle, a sedici anni già in fabbrica. Metalmeccanico è anche il destino della sua Linea, che diventa famosa come testimonial delle pentole a pressione Lagostina, verso la fine dei Sessanta, ancora nel pieno fulgore dell´epopea pubblicitaria di Carosello. Di quella Milano industriale, dagli umori artistici intensi e lunari, stilizzati e sobriamente eleganti, la Linea (a partire dal suo nome-manifesto) è una figlia molto tipica. Il segno asciutto, spogliatissimo, ottenuto levando e ancora levando ("cavàndoli", in questo senso, è quasi un gioco di parole, nonché un nomen-omen…), è parente stretto del migliore design milanese. Il tratto di Cavandoli è tipico della sobrietà funzionale ma anche della giocosa fantasia di disegnatori, progettisti, artisti che in quegli anni lavorano in strettissimo contatto con la produzione industriale e le aziende, loro committenti. E da queste vengono sollecitati a fornire un surplus di immagine, una scintilla di qualità che aiuti a rendersi distinguibili, che serva a galleggiare, in pieno boom economico, sull´onda di piena dei consumi di massa. Molti marchi industriali sono ancora in fasce, molte fabbriche sono cattedrali di ferro e fiamme piene di uomini e donne, ma la loro insegna non è ancora accesa nella Broadway dei consumi. La potenza materiale deve diventare comunicazione immateriale, linguaggio, cultura popolare, colpire l´immaginazione, imprimersi nel nuovo paesaggio del benessere. In molti lavorano a questa avventura. La Linea, con il suo incedere perenne (per esistere e per esprimersi ha bisogno di muoversi incessantemente, come la scrittura, da sinistra verso destra), esprime fortemente, e non saprei dire quanto inconsciamente, lo spirito "progressista" della sua epoca. Progressista, ovviamente, non in senso politico, ma in senso economico-industriale: la Linea è un omino in marcia, una marcia incidentata a scopo comico ma una marcia irresistibile. Il tracciato che percorre (e dal quale è formato, stessa sostanza del suo percorso) ricorda la linea mutevole della grafica dei bilanci aziendali, con tanto di discese ardite e di risalite… Ne è, in un certo senso, l´umanizzazione o meglio la "uomizzazione", è la linea astratta dei grafici economici che improvvisamente, per mano del demiurgo Cavandoli, si anima, prende rilievo, assume sembianze umane. Verrebbe da dire che la Linea, vista in questa chiave, è quasi un alter-Fantozzi, la messa a fuoco epico-comica di un minuscolo ingranaggio dell´immane meccanismo industriale che si mette in marcia non si sa per dove, e attraversa baratri e prende batoste, ed è perseguitato da folgori e da sciagure, ma come tutti gli eroi e come tutti i cartoon si rialza sempre, e ricomincia ad andare, andare, andare… Negli spot di Carosello (che allora si chiamavano réclame…), il demiurgo si ritaglia una parte molto chiara e cosciente. La mano di Cavandoli, munita di penna, irrompe nel video, come gli déi nei poemi epici, quando la Linea è in difficoltà, e per superare un ostacolo, o riaversi da una catastrofe, invoca l´aiuto del suo protettore. quasi una parodia michelangiolesca, con la mano (in carne e ossa) che appare e con il suo dito magico, la penna, insuffla nuova vita nell´omino. Come un elettroencefalogramma piatto che miracolosamente si rianima, la linea torna ad essere la Linea: si risolleva e si rimette in cammino. Il signor Lagostina era un appassionato di arte moderna. Facile immaginare che la pubblicità, per lui e la sua azienda di pentole, dovesse essere qualcosa di più di un banale e stentoreo slogan. Carosello, all´epoca, era organizzato come uno show in piena regola, una sequenza di brevi siparietti da affidare ad attori, registi, sceneggiatori. La specializzazione pubblicitaria, con i suoi creativi e i suoi scrittori, era ancora ai primi passi, e rivolgersi a un appassionato di cinema d´animazione era una delle tante vie per arrivare al pubblico in maniera riconoscibile. Osvaldo Cavandoli, pieno delle sue passioni "tenniche", bazzicava già da anni nel cinema d´animazione. Aveva collaborato con Nino Pagot, pioniere italiano del settore, e finirà, anni dopo, ad animare i disegni di Altan per realizzare i "corti" della Pimpa. Per Carosello, quando Lagostina lo contatta, aveva già realizzato la Mucca Carolina, pupazzo graficamente non memorabile ma popolarissimo tra i bambini per via dei jingle e dei primi gadget che trasportavano dal video alle case i personaggi della pubblicità. (Da bambino fui il possessore, molto fiero, di almeno una Mucca Carolina di plastica gonfiabile, di un paio di Calimeri da tavolo e di un Ercolino Sempreinpiedi da camera. Le figurine Mira Lanza, da scovare nei fustini di detersivo frugando nel sapone in polvere, restano comunque il gadget carosellesco più ambito e indimenticabile: il trofeo era nel cuore del Prodotto, la pubblicità era l´anima delle merci che provava a rivelarsi alla nostra gnosi domestica). Rispetto all´universo di Carosello, giocattolesco, fumettistico in senso molto tradizionale, la Linea è comunque un vero e proprio shock. L´immagine è quasi metafisica, il gioco grafico, nel suo svolgimento appunto lineare e ininterrotto, affascina adulti e bambini in maniera indelebile. quello che si dice volgarmente un´idea geniale. Ma veramente geniale. E che il genio sia un "tennico", un disegnatore industriale, un milanese modesto e di poche parole che rimase per tutta la vita sostanzialmente appartato rispetto a ogni tipo di ribalta, è cosa che aggiunge ulteriore fascino alla Linea, e colloca Osvaldo Cavandoli in un´area tutta sua della memoria grafica italiana. Più sopra mi è venuto da definire Cavandoli un "non intellettuale", ma pensandoci meglio è un errore. Se c´è una cosa che l´epopea del design milanese ha insegnato, è che i confini tra produzione industriale e lavoro intellettuale non sono definiti in partenza. Naturalmente la dozzinalità, nella produzione di massa, è molto più che una possibilità: è quasi una condanna. Ma le brute esigenze della produzione, il pulsare impaziente della fabbrica, sono un tale macigno che grava sulle idee dei "creativi", da renderle necessariamente rapide, funzionali, veloci. quella "velocità milanese" così spesso e giustamente derisa per quanto è spiccia e disumanizzante. Ma quando è invece precisa e insieme umana, quando trasforma la "tennica" in sapienza e (di conseguenza) anche in quella bellezza carica di pudore che è la virtù nascosta (molto nascosta, purtroppo) di Milano, allora nascono i maestri assoluti come Bruno Munari, nascono le vetrine di Danese davanti alle quali incollavo il naso da ragazzino studiando le forme "facili" ma fantastiche di ogni singolo oggetto, nasce la levità ludica di molto design, nasce la Linea di Cavandoli. Fissandone i connotati minimalisti e insieme l´espressività dilagante, quasi paperinesca nelle rabbie, quasi donchisciottesca nei silenzi, rimane però qualcosa di sfuggente e indecifrabile. Possiamo provare a collocarla nel suo tempo e perfino nella sua città, la Linea, Milano e gli anni Sessanta, binari del tram, luci al neon, fabbriche accese (La Linea, secondo me, quando usciva dal disegno saliva su una Fiat Ottocentocinquanta). Ma non riusciamo ad afferrare del tutto da quale foglio, da quale sbarra di ferro piegata, da quale svolazzo grafico Osvaldo Cavandoli sia riuscito a sortire questo personaggio perfetto, questo logo da museo, perfino più glorioso e certamente più sexy dell´omino coi baffi della Bialetti. C´è una specie di inspiegabile shining che aiuta l´autore, il creativo, il creatore a far nascere dal nulla il suo eroe. Di questo shining noi italiani siamo piuttosto ricchi, sarà un luogo comune dirlo ma è davvero il nostro bene-rifugio, il nostro antidoto contro le varie crisi strutturali, lo sfascio civico, la gracilità di tante strutture e infrastrutture. Come per la Linea, c´è un estro che risolleva quando si precipita, un estro o magari anche solo una gran fortuna o un incoercibile, inspiegabile ottimismo. Il tragitto prosegue, da sinistra verso destra, da un luogo a un altro, il senso opprimente di stagnazione e di fiacca che ci prende così spesso, ultimamente, non riguarda la Linea, che continua a camminare pur non sapendo che cosa la aspetta oltre il margine della pagina. MICHELE SERRA