La Repubblica 18/11/2007, pag.26 SANDRO VIOLA, 18 novembre 2007
Quel biglietto era il mondo. La Repubblica 18 novembre 2007. Il dollaro? Bisogna tirar giù dagli scaffali Hemingway e Fitzgerald, per ricordare che cosa fu ai suoi bei tempi
Quel biglietto era il mondo. La Repubblica 18 novembre 2007. Il dollaro? Bisogna tirar giù dagli scaffali Hemingway e Fitzgerald, per ricordare che cosa fu ai suoi bei tempi. Leggere qui un brano di Festa mobile, lì un altro di The sun also rises (Fiesta, nella famosa traduzione einaudiana), e poi qualche pagina di Tenera è la notte o di Babilonia rivisitata. Ed ecco affiorare, in pochi capoversi, la grandezza della moneta americana. Il suo fiabesco potere d´acquisto. Negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, Hemingway vive a Parigi con la prima moglie Hadley. Dall´America riceve la piccola pensione che lo Stato assicura ai reduci (Ernest è stato autista d´ambulanze sul fronte italiano), e dal Canada arrivano i magri compensi che il Toronto star gli paga, in dollari americani, per i suoi articoli. Eppure campa quasi come un re. Nel 1920 un dollaro vale infatti quindici franchi, nel ”23 ne vale quasi diciassette, nel ”24 supera i diciannove. E con diciannove franchi - come capiamo da quel senso continuo di felicità che percorre le pagine di Festa mobile - si possono avere una quantità di cose. Un pranzo alla Closerie des lilas, vari bicchieri di discreti Bordeaux e Sancerre al Select, al Dome e al Jockey, parecchie tazze di café crème alla terrazza della Rotonde o della Coupole. E non basta: con il gruzzolo di dollari che rimedia ogni mese, Hemingway si può permettere persino d´andare ogni tanto sino in Andalusia, verso Ronda, a pesca di trote. Lo stesso quando arrivano a Parigi Scott e Zelda Fitzgerald, Harry e Mary Crosby, e tutte le altre famose coppie americane di quegli anni. Grandi alberghi, un fiume di champagne, notti di follie. A New York, i guadagni che Fitzgerald ha ricavato da Di qua dal paradiso e da Belli e dannati, i generosi compensi che le grandi riviste americane gli stanno pagando per i suoi racconti non consentirebbero una vita tanto dorata. Ma a Parigi il dollaro pesa: si cambia un Traveller´s cheque in banca, e se ne esce con le tasche gonfie di franchi. Né si tratta soltanto di Hemingway e Fitzgerald, o dei ricchi come Harry Crosby e Ford Maddox Ford. A godere della manna-dollaro è l´intera «lost generation», da Pound a Dos Passos e ad Anderson, tutti a Parigi, tutti senza molti mezzi, ma tenuti a galla da un cambio tanto propizio da sembrare miracoloso. Anzi, a pensarci bene, senza il dollaro a diciannove franchi non ci sarebbe stata la «lost generation». Non ci sarebbero stati cioè gli «expatriates» americani sulle rive della Senna, Gertrude Stein non avrebbe mai parlato d´una «generazione perduta», e noi non ci saremmo beati a rievocarla - cinquanta e più anni fa - ogni volta che entravamo al Select, al Dome o alla Closerie. La festa mobile durò parecchi anni. Ancora nella seconda metà dei Venti, quando già se n´erano andati Hemingway, Fitzgerald e molti altri scrittori americani, dagli Stati Uniti continuavano ad arrivare a Parigi coppie celebri e aspiranti artisti. Era in genere gente ricca (basta pensare al Maugham di Il filo del rasoio) che non abitava a Montparnasse ma all´Avenue Foch, resa ancora più ricca e prodiga dalla potenza del dollaro. Poi, d´un tratto, giunse la scossa tellurica del ”29. Il crollo di Wall Street si portò dietro anche il valore del dollaro, la vita a Parigi si fece costosa, e gli «expatriates» - salvo Henry Miller, che viveva con molto poco - sparirono. Ma si trattò d´una eclisse temporanea. Il legame dollaro-Parigi-letteratura americana si riprodusse infatti, tale e quale, alla fine del secondo conflitto mondiale. A partire dal ”48-49, poiché il dollaro ha intanto ritrovato la sua imbattibile robustezza mentre il franco della Quarta Repubblica zoppica vistosamente, la capitale francese s´empie ancora una volta di scrittori americani. Di nuovo, una piccola rendita in valuta americana consente di vivere a Parigi abbastanza bene, e soprattutto consente di frequentarne giorno e notte i bar. Il quartiere degli americani è adesso Saint Germain-de-Prés, ed è lì che vanno ad abitare William Styron, James Jones, Richard Wright, James Baldwin, William Gardner Smith, ed altri di cui s´è persa la memoria. Più in là verso il boulevard Saint Michel, tra Git-le-coeur e la Houchette, andranno invece ad attestarsi alcuni anni dopo William Burroughs e Allen Ginsberg. Oggi il dollaro sbanda, pericola, sembra un ferito che si sforzi di restare in piedi. Ma allora, l´abbiamo visto, metteva il vento in poppa persino alla letteratura. E non era solo questione di scrittori americani a Parigi. Dagli anni Cinquanta sino alla fine dei Novanta, il biglietto verde è un "passe-partout", un "apriti Sesamo" per ogni tipo di viaggio in ogni angolo del mondo. Viaggiare senza dollari (dollari contanti, non Traveller´s), avrebbe significato infatti andare incontro a qualche guaio. I viaggi dei giornalisti, per fare un esempio: l´Africa, l´Asia, il Medio Oriente, l´Urss e i suoi satelliti, come si sarebbero potuti percorrere più o meno tranquillamente senza avere in tasca un rotolo di dollari tenuti insieme da un elastico? Capitava infatti che un doganiere ugandese, all´aeroporto di Entebbe, negli anni della follia di Idi Amin, bloccasse il giornalista asserendo che nella sua macchina fotografica c´erano foto di installazioni militari: e che perciò - se avesse voluto partire - avrebbe dovuto consegnargli l´apparecchio. Litigare non era il caso, perché a quel tempo si poteva finire in una prigione di Kampala per molto meno d´una lite alla dogana. I minuti intanto trascorrevano, il giornalista rischiava di perdere l´aereo e di dover aspettare due o tre giorni per il prossimo. Ma il dollaro, un biglietto da venti lasciato scivolare sul banco del doganiere, risolveva infine la controversia, che mai e poi mai si sarebbe risolta se il viaggiatore avesse avuto con sé franchi francesi, marchi tedeschi o lire italiane: biglietti di banca che l´ugandese non aveva mai visto, anzi non aveva mai saputo che esistessero. E lo stesso negli anni di Mobutu all´aeroporto di Kinshasa, altra città dove si finiva facilmente in galera, quando un sergente della polizia fermava il giornalista, lo spingeva in uno sgabuzzino e lì l´accusava di traffico di diamanti. Le proteste non servivano a niente, il congolese continuava a gridare: «J´ai l´ordre de vous arrèter, monsieur». E anche qui, senza il dollaro talismano, sarebbe finita male. Ma un altro biglietto da venti faceva il miracolo, e dopo averlo intascato il sergente accompagnava il viaggiatore sino alla scaletta dell´aereo profondendosi in una serie di calorosi «Bon voyage, monsieur». No, non si sarebbero potuti dare franchi, marchi o lire ai telescriventisti di Dacca, ai telegrafisti di Delhi, ai telefonisti del Cairo che rifiutavano - ciascuno con un suo pretesto: il coprifuoco, un guasto della telescrivente, la mancanza del visto della censura - di spedire gli articoli o di dare una comunicazione telefonica. Ma qualche dollaro serviva di colpo, come per magia, ad abbattere l´ostacolo. Né si sarebbe potuta ottenere la colazione in camera negli alberghi sovietici, un whisky in Kuwait, un taxi per raggiungere la piazza Tienanmen durante la rivolta degli studenti nell´89, un argento vittoriano al mercato cairota di Khan al Khalili, qualche pacchetto di sigarette non rumene - cioè fumabili - nella Bucarest degli anni peggiori di Ceausescu, se non s´avesse avuto in tasca l´amuleto, quel rotolo di dollari tenuti insieme da un elastico. E adesso che il biglietto verde cede, retrocede, periclita, viene in mente un´ultima immagine di quella che fu la sua leggendaria potenza. Le processioni nei paesi del Meridione d´Italia, trenta o quarant´anni fa, quando le madonne procedevano portate a spalla, coperte di dollari attaccati con la carta gommata, dono degli emigrati lontani ma sempre devoti. La banda suonava, e se il pomeriggio si faceva un po´ ventoso i biglietti verdi tremolavano leggeri lungo il manto della madonna. SANDRO VIOLA