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 2007  novembre 18 Domenica calendario

Bacchette magiche. La Repubblica 18 novembre 2007. VIENNA. Il sogno del direttore d´orchestra Zubin Mehta è trascorrere la sua vecchiaia in Kashmir, «immerso nella sacralità della natura, in una casa da cui si veda il punto di confluenza tra i fiumi Gange e Jamuna»

Bacchette magiche. La Repubblica 18 novembre 2007. VIENNA. Il sogno del direttore d´orchestra Zubin Mehta è trascorrere la sua vecchiaia in Kashmir, «immerso nella sacralità della natura, in una casa da cui si veda il punto di confluenza tra i fiumi Gange e Jamuna». Pensa a quei cieli, a quelle foreste, a quelle montagne. Spesso fantastica sui sapori speziati dell´India: «Sono indiano al cento per cento, dentro e fuori. Nessuna cucina mi soddisfa tanto, neanche quella italiana, che pure è meravigliosa, diciamo che merita il secondo posto. Nessuna terra mi appartiene così intimamente come il mio paese. Da tempo abito a Los Angeles e ho un´altra casa in Toscana, adorata da mia moglie Nancy, che ne ha fatto il suo rifugio ideale. Ma che felicità tornare a Bombay, dove sono nato. Apro la finestra e mi affaccio su un flusso di migliaia di persone, oceani incredibili di umanità. Scendo per strada ed è come nuotare, mi piace confondermi tra la folla senza che nessuno mi riconosca». Musicista di splendente e pluriennale successo, Mehta è una star senza frontiere, accolto sul podio delle migliori orchestre occidentali. Figlio del violinista e direttore Mehli Mehta (che creò a Bombay la prima formazione sinfonica indiana), aveva poco più di vent´anni quando diresse i Wiener Philharmoniker e poi i Berliner. Allievo di Hans Swarowsky a Vienna, dove conobbe Daniel Barenboim e Claudio Abbado, amici e complici da allora e per sempre, è stato plasmato fin da ragazzo (a diciott´anni sbarcò in Europa, proprio in senso letterale, approdando in Italia via mare per poi raggiungere l´Austria in treno) dall´aureo linguaggio stilistico della suprema civiltà musicale occidentale. Per questo considera Vienna la sua seconda casa: «Ogni volta che ci arrivo è come entrare nel mio salotto». Lungo i decenni, con risultati gloriosi, ha governato la Los Angeles Philharmonic e la Filarmonica di New York, ha diretto uno dei più prestigiosi teatri lirici del mondo, la Staatsoper di Monaco di Baviera, ed è stato nominato «direttore a vita» della Israel Philharmonic. Eppure non dimentica, non rinnega, non ha mai dato l´anima intera all´Occidente. Insiste nel cullarsi in nostalgie speciali: «In famiglia sono cresciuto parlando un dialetto della lingua gujarati, la stessa del Mahatma Gandhi. Ho avuto un rapporto fortissimo con i miei genitori, entrambi molto longevi. Mio padre è morto a novantaquattro anni, mia madre a novantasei, e quando avevo più di sessant´anni potevo ancora conversare con loro ogni giorno. Uno dei motivi per cui li chiamavo spesso era il piacere di usare la mia lingua, che ho perso da quando non ci sono più. Adesso, quando telefono a mio fratello Zarin a New York, gli parlo in gujarati e lui mi risponde in inglese. Per me è una tragedia». Di leggendaria bellezza da giovane, un rubacuori con pochi confronti, un mito di avvenenza persino a Hollywood, in mezzo ai divi del cinema, molti dei quali sono stati suoi amici, oggi Zubin Mehta, nato nel ”36, è un settantenne affascinante, il volto liscio con la pelle d´ambra, il gioco malizioso del sorriso, la testa regale, da leone buono. Il nostro incontro avviene a Vienna, seconda tappa (dopo Varsavia e prima di Francoforte e Baden-Baden) di una tournée europea alla guida dell´Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, che Mehta chiama «la mia famiglia italiana», e che dirige come maestro principale dall´85. Con l´amato Zubin sul podio (amato perché ha un´indole calda e generosa), l´orchestra ha debuttato nella sala viennese del Musikverein, il più ambìto e sontuoso tra gli spazi musicali (è sede del Concerto di Capodanno), con due serate dall´esito trionfale. In programma figuravano tra l´altro una Prima Sinfonia di Brahms limpida e contrastata e una Patetica di Ciaikovskij di struggimento inevitabile. In coda una suite di italianissimi bis: Puccini, Verdi, Mascagni. Platea vibrante di emozione, persino Zubin, lassù sul podio, pareva commosso. «Certo che mi commuovo, accade sempre, non c´è routine. Sono i miei musicisti ad ispirarmi», spiega. Niente, racconta, gli dà più piacere del dirigere l´Eroica di Beethoven. E soprattutto il Don Giovanni di Mozart, che «è insieme pathos e commedia, capace di provocare il pianto e il riso. Potrei dirigere quest´opera in ogni momento della mia vita. E anche La Valchiria di Wagner: mi toccano nel profondo i sentimenti che vi sono espressi, i forti legami fraterni, l´amore del padre per la figlia che, per intesa spirituale, per lui è quasi una fidanzata. Tutto è concreto, vivido, riconoscibile». Zubin ha una fede incrollabile nella musica classica, nel suo potere di pacificare e superare differenze, nella sua eterna attualità: «Si dice che il pubblico è invecchiato, che non c´è ricambio, che dilaga la crisi. Ma anche quand´ero giovane ci si lamentava che i giovani non venissero ai concerti. Quelli che oggi sono maturi o vecchi dove stavano cinquant´anni fa? Non erano forse i giovani di allora? Io credo che non ci sia alcuna flessione d´interesse: semplicemente la musica classica si fa capire e apprezzare di più da chi ha superato i quarant´anni. Crescendo si comprende meglio il senso e il peso della cultura, diventa più necessaria. Non a caso i musei non traboccano di ventenni. Però a Firenze, qualche mese fa, ho diretto Wagner: L´Oro del Reno e La Valchiria, con l´allestimento del gruppo teatrale spagnolo Fura dels Baus, e il pubblico è accorso foltissimo, tutto esaurito e con una forte componente giovanile, c´è stato un gran passaparola. Sono convinto che noi musicisti possiamo ancora parlare al cuore della gente, di ogni generazione». Zubin, che ama tanto Wagner, ha cercato di eseguirlo anche in Israele, a cui lo lega un rapporto d´intensa affezione e di fervido sostegno politico. Non ha mai rinunciato a dirigervi concerti, neppure in situazioni estreme. Quando scoppiò la Guerra dei sei giorni riuscì a raggiungere Israele fortunosamente, su un aereo da trasporto della El Al, sedendo su casse zeppe di munizioni (ma questo lo avrebbe scoperto solo all´arrivo): voleva stare vicino ai suoi amici israeliani. E una notte che era a Gerusalemme, all´Hotel King David, un proiettile forò la parete sopra il suo letto, mentre dormiva: «Ho un buon angelo custode, gli spari non mi hanno svegliato». Quando volle proporre a Israele il preludio e la morte d´amore dal Tristano e Isotta di Wagner in sala esplose il finimondo: «Insulti, grida, gente che tentava di salire in palcoscenico, aggressioni fisiche agli orchestrali, un caos furioso. Nel pubblico c´era gente che aveva sentito Wagner nei lager, e che aveva ancora il numero tatuato sul braccio. Non si può non rispettare certe emozioni. D´altra parte la storia della musica degli ultimi centocinquant´anni sarebbe impensabile senza Wagner». Perché tanto incondizionato amore per Israele? Non c´entra il fatto che Zubin fa parte di una minoranza? Mehta discende da un´aristocratica famiglia di antica tradizione parsi, i seguaci di Zarathustra che fuggirono dalla Persia per sottrarsi al dominio arabo che aveva islamizzato la loro terra: «Oggi i parsi sono ottantamila nel mondo, di cui sessantamila in India: una fetta minima della popolazione indiana. Forse anche per questo sono legato a Israele. La nostra religione, un monoteismo fondato sul conflitto tra luce e tenebre, ha qualche analogia con l´apocalittica giudaica. Abbiamo affinità culturali con gli ebrei: come loro diamo un´enorme importanza all´educazione e alla beneficenza, aiutiamo molto i nostri poveri. Santi, per noi, sono gli elementi naturali, il fuoco, l´acqua, la terra, per questo non possiamo bruciare o seppellire i nostri morti. Vengono posti in una grande fossa circolare murata dove li mangiano gli avvoltoi, e c´è uno sbocco che porta le ossa al mare. Si chiama Torre del Silenzio. Nel nostro tempio si prega il fuoco, una forza che può distruggere e creare, e il mese di aprile è dedicato all´acqua. Ricordo mia madre che pregava davanti al mare». Della sua India è fiero, ma con riserve polemiche: «Mi riempie d´orgoglio l´esplosione economica del paese e l´impressionante sviluppo delle nuove tecnologie, ma trovo insopportabile l´idea che il sessanta per cento degli abitanti di Bombay non abbia acqua potabile. Quando ho cominciato a lavorare in America, nel ”61, ero quasi l´unico indiano conosciuto negli Stati Uniti. Oggi non c´è ospedale né borsa né compagnia finanziaria dove non lavorino gli indiani. Sono gli artefici delle infrastrutture americane. Però in India, su un miliardo e duecento milioni di abitanti, solo quattrocento milioni sanno leggere e scrivere. Gli altri vivono nell´ignoranza e nella povertà. In alcuni villaggi vige ancora il sistema per cui si ammazzano le figlie femmine, in quanto meno utili per i lavori nei campi. spaventoso». In India ha miriadi di parenti e cugini («quando dirigo a Bombay devo aumentare le repliche dei concerti per poterli invitare tutti»), ma numerosi membri della sua famiglia vivono altrove. Dalla prima moglie, Carmen, canadese (che dopo il divorzio da Zubin ha sposato suo fratello Zarin Mehta, oggi sovrintendente della New York Philharmonic), ha avuto due figli che lo hanno già reso nonno, e che vivono l´una a Montréal e l´altro a Philadelphia. americana Nancy, bellezza bionda ed ex attrice, sposata nel ”69 e da allora compagna inseparabile di Zubin, da cui non ha avuto figli. E in più il maestro ha due figli nati fuori dai matrimoni, una a Los Angeles e l´altro in Israele. «Mi piace l´idea d´invecchiare tra i nipoti, vorrei vederli tanto di più. Se avessi quella certa casa in Kashmir verrebbero a trovarmi? Temo proprio di no. Per questo il Kashmir resta solo un sogno». E allora meglio non smettere di dirigere, fino alla fine dei suoi giorni: «A noi direttori piace morire sul podio». LEONETTA BENTIVOGLIO