17 novembre 2007
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 19 NOVEMBRE 2007
(prendere questa se non arriva la mail). 14 gennaio 2003. A Grugliasco, città alle porte di Torino, viene ritrovato il cadavere di Giuseppe Donà, 40enne disegnatore tecnico della Valeo di Pianezza. Gli hanno sparato tre colpi di pistola calibro 6,35, in casa gli trovano un chilo e 700 grammi di cocaina. Per capirci qualcosa, i carabinieri del reparto operativo e il pubblico ministero che si occupa dell’omicidio hanno bisogno di un anno e mezzo, finché un pentito legato alla ”ndrangheta parla di suoi conoscenti che spesso andavano in Calabria a prendere cocaina ed eroina da portare al Nord. [1]
Dopo poco viene arrestato un amico di Donà, Paolo Ammassari, sempre per droga. Grazie alle intercettazioni telefoniche, il 5 luglio 2006 viene arrestato Giuseppe Amato, un artigiano di 46 anni con la fama da «duro», e con lui un romeno attraverso il quale arrivano a Leonardo Cotrona, un commerciante di 40 anni di Collegno. Il terzo killer sarebbe Rocco Varacalli, 37 anni, il quale, messo alle strette, ammette: «Sì, ero anch’io lì. Ma ho solo assistito. Ci fu un acceso diverbio, poi Cotrona si allontanò con Donà facendomi segno di seguirli. Tirò fuori la pistola e sparò, uccidendo Donà». [1]
La versione non convince completamente il pubblico ministero, che ha dalla sua parte un testimone: un uomo con precedenti, che non era sul luogo, ma a cui i tre un giorno si erano rivolti vantandosi di aver fatto fuori il disegnatore della Valeo. Alla fine il pm contesta a tutti e tre l’omicidio volontario. Dall’inchiesta sul delitto nasce un’indagine sul traffico di stupefacenti: cinquanta telefonini cellulari sotto controllo, centinaia di pedinamenti, filmati. Si scopre che il gruppo riesce a piazzare sul mercato torinese un chilo di droga alla settimana per un volume d’affari di un milione di euro l’anno. Si tratta del livello medio, quello che collega i grossisti con i piccoli spacciatori di Porta Palazzo e San Salvario. [1]
Alla fine i magistrati della Dda di Torino Maurizio Laudi e Roberto Sparagna chiedono la cattura di 39 persone. Ne vengono arrestate solo cinque: Carmelo Pirrotta, 44 anni di Moncalieri; Cesare Gramuglia (42) di Moncalieri; Mariano Mirengo (47), di Torino; Francesco Simone (47) di Torino e Oreste Scotti (30) di Beinasco. Tutti avevano commesso reati anche dopo il 2 maggio 2006, data dell’indulto. Per gli altri niente da fare perché, spiega il giudice Alessandro Prunas, non ne valeva la pena: tra attenuanti generiche, riti alternativi, legge sull’indulto e semilibertà, nessuno avrebbe fatto un giorno di galera, arrestarli sarebbe stata una perdita di tempo. [1]
La Procura ha presentato ricorso in Cassazione. Carlo Federico Grosso: «Il codice di procedura penale indica taluni casi nei quali la misura della custodia cautelare non può essere assunta dal giudice dell’udienza preliminare in considerazione della valutazione che egli fa in ordine alla pena che potrà essere irrogata con la sentenza emessa alla fine del processo dal giudice del dibattimento. In questa prospettiva stabilisce, ad esempio, che il carcere preventivo non può essere disposto se il giudice ritiene che sarà concessa la sospensione condizionale della pena (prevista, a certe condizioni, per condanne fino a due anni) o che la pena non potrà essere irrogata perché è presente una circostanza che estingue il reato o l’intera pena. Fra questi casi non inserisce tuttavia l’ipotesi in cui il giudice, chiamato a decidere sulla richiesta di applicazione di una misura cautelare, pronostichi la pena che verrà irrogata dal giudice del dibattimento valutando tutte le possibili varianti del processo penale». [2]
Il ragionamento del magistrato non è previsto dalla legge. Grosso: «Tenuto conto ”del probabile accesso ai riti alternativi” e ”della possibile concessione delle attenuanti generiche”, ha ritenuto che la futura sentenza di condanna non avrebbe comunque potuto infliggere più di sei anni di reclusione. Tenuto altresì conto ”dei tre anni di pena sicuramente estinti dall’indulto” e ”della conseguente possibilità di immediato accesso a misure alternative alla detenzione”, ha valutato che i condannati non avrebbero mai varcato le porte del carcere. Ha quindi deciso di respingere per questa ragione la richiesta di cattura, pur giustificata dalla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza e dalla presenza delle esigenze cautelari». [2] Nel corso delle perquisizioni a uno dei «graziati», a Platì, è stato ritrovato un bunker, nascosto da una finta parete: i carabinieri sospettano fosse usata per nascondere latitanti. [1]
La Giustizia penale è allo sfascio. Grosso: «Riti processuali alternativi che determinano abnormi diminuzioni di pena, circostanze attenuanti generiche applicate a qualsiasi delinquente, pene alternative alla detenzione acquisibili pressoché da tutti i condannati, l’indecente condono di ben tre anni di pena approvato dal Parlamento poco più di un anno fa, altri benefici disseminati nelle leggi penali e nell’ordinamento penitenziario. Il risultato: una sanzione penale imprevedibile, che tende a sfrangiarsi o addirittura, talvolta, a svanire, il carcere troppo agevolmente eluso, gli sforzi delle forze dell’ordine e delle Procure della Repubblica vanificati, il vento del buonismo legislativo e giudiziario che toglie vigore alla prevenzione generale contro il crimine». [2]
Può essere che con la menzionata ordinanza il giudice dell’udienza preliminare di Torino abbia inteso fare una provocazione. Denunciare una legislazione penale che impedisce alla giustizia di funzionare, esprimere la conseguente insofferenza di molti cittadini di fronte a tale situazione, protestare contro la disattenzione della politica per i problemi di un circuito giudiziario che gira troppe volte a vuoto. Raphaël Zanotti e Giuseppe Legato: «Che i torinesi abbiano una visione pragmatica del diritto è noto da tempo. Mesi fa era stato il procuratore capo di Torino Marcello Maddalena a scatenare un dibattito con una propria circolare ai magistrati inquirenti nella quale si chiedeva che i pubblici ministeri, nel mandare avanti i processi, tenessero in considerazione le reali possibilità che questi avevano di arrivare alla fine senza chiudersi con una prescrizione. Una circolare che, apprezzata per l’onestà, era stata comunque criticata in quanto poneva dei dubbi rispetto all’obbligatorietà dell’azione penale della magistratura». [1]
Si può leggere in questa vicenda un certo scoramento da parte della magistratura. Maddalena: «Certamente c’è un clima che non favorisce la fiducia nel lavoro che si cerca di fare. Molto spesso i magistrati inquirenti, ma estendo questa mia considerazione anche a quelli giudicanti, hanno l’impressione di lavorare a vuoto». [3] Nicola Mancino, vicepresidente del Csm: «La pubblica opinione rimane perplessa di fronte a decisioni come quella di non applicare la legge, di non spedire in carcere indagati per reati gravissimi, a prescindere dal fatto che questi signori in carcere ci staranno ben poco. La stragrande maggioranza dei magistrati applica la legge, anche quando ha consapevolezza della sua inefficacia». [4]
Il gip di Torino rischia di pagare per colpe non sue. Il problema del Paese è la certezza della pena che non c’è. Mancino: «Sono convinto che la stragrande maggioranza dei magistrati vive nelle difficoltà conosciute, come le mancate riforme di diritto sostanziale e processuale. Ma i giudici rispondono, anche se complessivamente la macchina giudiziaria è lenta, i processi sono lunghi, la gente perde fiducia». [4] Per la fine dell’anno, i reati commessi in Italia potrebbero toccare quota tre milioni, nel 2006 erano stati 2,8 milioni, in aumento del 7,5% rispetto a quelli del 2005. Il sociologo Maurizio Fiasco: «Con l’indulto dell’estate 2006 sono tornati in libertà molti ladri professionali: parte del loro ”lavoro” criminale è rilevato dal consuntivo 2006, il resto lo sarà alla fine dell’anno in corso. Del resto, anche dopo l’amnistia del 1989 che ha accompagnato la riforma del Codice di procedura penale, si è registrato un incremento di mezzo milione di delitti». [5]
Una rapina a mano armata vale seicento giorni di carcere, meno di due anni. Guido Ruotolo: «Tanto quanto vale lo spaccio di droga. Una violenza sessuale, settecento giorni, un furto, duecentodieci giorni. il catalogo dell’ingiustizia, che spiega perché si ripetono vampate di indignazione». I dati provengono da una ricerca del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il cui capo Ettore Ferrara ha spiegato non molto tempo fa che le carceri si sono «sgonfiate» grazie all’indulto, passando da 63.000 a 42.119 detenuti, il 42% dei quali definitivi (il 34% in attesa di giudizio, il 18% appellante, il 6% ricorrente in Cassazione, dati al giugno scorso). [6]
L’assenza di interventi strutturali sul sistema legislativo vigente sta determinando un incremento della popolazione carceraria tra mille e duemila unità al mese, tra un anno e mezzo (mese più, mese meno) le carceri italiane torneranno ad essere sovraffollate come prima dell’indulto. [7] Il problema, si dice, è che la giustizia italiana ruggisce ma non graffia. La presenza di ”flusso” negli istituti penitenziari registra un dato molto basso in termini di permanenza del singolo soggetto detenuto con valori medi che raramente superano i 90/120 giorni. Il rapporto del Dap sottolinea che il sistema giudiziario e penitenziario che trova riscontro nell’articolo 27 della Costituzione «si sviluppava in modo abbastanza controllato con il ricorso alla sanzione detentiva in un numero più limitato di casi di quanto accada oggi e con una permanenza nell’istituzione penitenziaria più prolungata di quella odierna». [6]
Il problema più serio è quello di percepire le disfunzioni, di riconoscere la necessità di adeguamento anche di carattere normativo e non provvedervi. Mancino: «Purtroppo, da anni il nostro Paese è immobile. Tutto viene triturato in logiche politiche di schieramento mentre il corpo elettorale ha assegnato ai singoli parlamentari il mandato di governare e di legiferare. Il Parlamento deve funzionare, non può vivere un giorno sì e l’altro pure con il dubbio se il governo cade, se ne nasce un altro, se un parlamentare cambia casacca. Così non si affrontano i temi veri della crisi del Paese, che è una crisi interistituzionale che attraversa governo, parlamento, forze dell’ordine, magistratura». [4]