Guido Rampoldi, la Repubblica 14/11/2007, 14 novembre 2007
Mesi di negoziati sotterranei naufragano nella promessa lapidaria che ora complica l´incerto futuro del Pakistan: «Musharraf deve dimettersi, io non sarò mai il suo primo ministro»
Mesi di negoziati sotterranei naufragano nella promessa lapidaria che ora complica l´incerto futuro del Pakistan: «Musharraf deve dimettersi, io non sarò mai il suo primo ministro». Forse in futuro quel "mai" si rivelerà meno perentorio di quanto oggi appaia, però al momento tutto sembra indicare che Benazir Bhutto terrà fede alle sue parole. Come aveva detto la settimana scorsa ad un giornale statunitense, «è pericoloso opporsi ad una dittatura militare, ma è ancora più rischioso non opporvisi». Se questa fosse una posizione etica, se esprimesse un impegno morale, Washington potrebbe ancora sperare che la donna più influente del Pakistan si riscopra pragmatica e concluda finalmente un compromesso con il generale Musharraf, dittatore ma blando. L´uno resterebbe capo dello Stato, l´altra diventerebbe primo ministro; per il sollievo degli occidentali, il Paese potrebbe finalmente ritrovare una stabilità, una rotta verso una piena democrazia e un governo che sia custode affidabile di una cinquantina di bombe atomiche. Ma i rischi che la Bhutto paventa non lasciano spazio all´accordo politico che il Dipartimento di Stato da tempo caldeggia: se oggi Benazir venisse a patti con i militari, una metà del Paese la ripudierebbe come traditrice e l´altra la disprezzerebbe come marionetta degli americani. Non è più la figlia del primo ministro impiccato dai generali fondamentalisti, la ragazza bella e coraggiosa che ancora all´inizio degli anni Novanta richiamava in piazza milioni di pakistani. Altri tempi. Il declino è cominciato quando suo marito fu arrestato per corruzione. Divenuta la moglie del Signor Cinque per Cento, nel 1999 fu scacciata come un´appestata da un "governo degli onesti" però insediato dallo stato maggiore. Il mese scorso Musharraf le ha permesso di tornare dall´esilio di Dubai, così come chiedeva Washington e probabilmente in cambio di qualche garanzia sul proprio futuro come presidente della Repubblica. Ma il sospetto di un accordo sottobanco ha suscitato malessere nel Pakistan democratico, perfino nel partito della Bhutto. Quest´ultima rischiava di passare per la protetta della detestata amministrazione americana, o peggio, per la complice occulta del detestato Musharraf. Il presidente non le aveva forse riservato un trattamento di favore, dopo la proclamazione dello stato d´emergenza? Posta agli arresti domiciliari, era stata liberata dopo poche ore, probabilmente per intercessione di Washington: non era anche questa la prova di una trama segreta? Ma questi dubbi sono sbiaditi nelle ultime ore. La Bhutto ha indetto una marcia dal Punjab a Islamabad, e quando la polizia ha circondato in forze la sua grande casa a Lahore, dove tuttora è prigioniera, ha lanciato a Washington un imbarazzantissimo aut aut: o con me o con Musharraf. Come ha spiegato ieri alla Reuters, «nel passato abbiamo cercato di trovare una soluzione circa Musharraf, ma adesso l´opinione pubblico non la permette». E poiché i pakistani esigono che il presidente si dimetta, «Washington deve decidere. Ho la serena certezza che sarà dalla parte della gente del Pakistan». Con chi stia oggi la gente del Pakistan è materia assai dibattuta. Se crediamo ai sondaggi fino al 2006 stava con Musharraf nella misura del 60%, quasi un primato per il capo di un governo autoritario. Ma quando ormai il generale-presidente si pensava come un emulo di Kemal Ataturk, il suo modello, l´opinione pubblica gli ha voltato le spalle. Fosse la stanchezza per una transizione troppo ambigua o l´irritazione per alcuni gesti muscolari compiuti da Musharraf contro lo stato di diritto, quest´anno il favore popolare è precipitato al 21%, e dopo la proclamazione dello stato d´emergenza si sarebbe ridotto ulteriormente. La Bhutto potrebbe contare su un terzo dell´elettorato, ma non oltre. L´alleanza dei sei partiti fondamentalisti peserebbe per la metà di quel ragguardevole 11 per cento che la consorteria ottenne nelle ultime elezioni, anche grazie ad alcuni favori barattati con Musharraf. Ma per quanto frammentato e indefinito sia il panorana, Musharraf oggi sa di non avere alleati: in un parlamento regolarmente eletto rischierebbe l´impeachment immediato. Può salvarlo soltanto la Bhutto e il suo PP, Partito del Popolo. E poiché la Bhutto rifiuta, al momento Musharraf non avrebbe altra prospettiva che annullare le elezioni di gennaio, oppure truccarle con gli strumenti coercitivi che gli offre lo stato d´emergenza. Per ora ne fa un uso limitato. Ma è in vigore la censura, migliaia di pakistani sono agli arresti domiciliari, e ieri il governo ha posto restrizioni alla vendita di parabole con cui si captano le tv satellitari. Sono misure nel complesso blande. Se però la protesta crescesse d´intensità e volgesse in sollevazione, probabilmente Musharraf mostrerebbe un volto meno accattivante di quello del "dittatore gentile" con il quale ha conquistato non pochi analisti occidentali. Meno rischi provengono a Musharraf dalle Forze armate. Dal 1999 dozzine di generali pakistani si sono scoperti una vera passione per gli affari e per il governo della cosa pubblica, e il presidente-capo di stato maggiore, insediandoli ovunque, ne ha conquistato la riconoscenza. Le Forze armate oggi sono il principale agente immobiliare del Paese, dominano il mercato dei cereali, controllano banche e panifici, e insieme a tutto questo anche un enorme flusso di denaro e di favori. Però nell´esercito e nei servizi segreti permarrebbero, malgrado le epurazioni, cellule binladiste sul genere di quella che nel 2003 tentò di uccidere Musharraf. L´islamismo filo-Taliban avrebbe una qualche presa tra i quadri bassi delle Forze armate, soprattutto nelle regioni alla frontiera con l´Afghanistan. Una certa influenza può esercitarla anche Washington, in virtù di quei 10 miliardi di dollari di aiuti che versa ogni anno al Pakistan. Ma ammesso che pesino abbastanza per convincere il generalissimo ad abdicare, gli americani probabilmente faranno finta di non aver udito l´intimazione della Bhutto, o con me o con il dittatore, e tenteranno di allestire in segreto un compromesso sempre più urgente e necessario.