Bill Emmott, Corriere della Sera 13/11/2007, 13 novembre 2007
La corsa inarrestabile del prezzo del petrolio verso i 100 dollari per barile sta calamitando l’attenzione mondiale sia per il suo valore simbolico, sia per il timore dell’imminente peggioramento dell’economia americana
La corsa inarrestabile del prezzo del petrolio verso i 100 dollari per barile sta calamitando l’attenzione mondiale sia per il suo valore simbolico, sia per il timore dell’imminente peggioramento dell’economia americana. Il rallentamento del più grande consumatore di petrolio al mondo sarà ulteriormente aggravato dai prezzi crescenti dell’energia, ma anche dal fatto che questi costi in ascesa rischiano di scoraggiare la Federal Reserve, la banca centrale Usa, dal tagliare i tassi di interesse con la rapidità desiderata, per evitare appunto di aggravare l’inflazione. Tuttavia, le ripercussioni peggiori del petrolio a 100 dollari, sia a livello mondiale che per l’America stessa, saranno avvertite non a Washington, bensì a Pechino e a Delhi. La Cina prevede di superare l’America come maggior consumatore mondiale di energia nei prossimi due o tre anni. La richiesta energetica in Cina e in India raddoppierà, secondo le stime, nell’arco dei prossimi due decenni. Questa previsione, tuttavia, è basata sullo strano presupposto che la richiesta energetica non sarà sostanzialmente influenzata dai prezzi in ascesa. Se così fosse, quello cinese sarebbe il primo grande mercato in cui i forti aumenti dei prezzi non avrebbero alcun impatto reale sulle decisioni dei consumatori su se e che cosa comprare. Questa previsione è certamente errata. I prezzi contano, eccome, e influenzano i comportamenti. Eppure in Cina, in particolar modo, potrebbero contare in maniera assai insolita. L’incremento del prezzo del petrolio aggrava il conto delle importazioni della Cina, poiché il Paese è costretto a comprare all’estero quasi tutto il petrolio che consuma. Questo però è un dettaglio privo di grande importanza, dato che la Cina gode di un’enorme eccedenza della bilancia commerciale, e di un saldo attivo della bilancia dei pagamenti che oggi tocca un eccezionale 10% del Pil. Il vero rischio, a breve termine, del rincaro del greggio sta nel suo effetto sull’inflazione. Dopo un lungo periodo di prezzi al consumo stabili o in calo, la Cina oggi si preoccupa della ripresa dell’inflazione, con l’indice dei prezzi al consumo salito di oltre il 6% nel corso dell’ultimo anno. In passato, la Cina ha fatto ricorso a sussidi e controlli sui prezzi per tutelare i consumatori dall’aumento del costo dei carburanti, ma è stata una scelta dispendiosa per il bilancio del governo e contraddice un’altra politica, cioè l’obiettivo di migliorare l’efficienza energetica e ridurre drasticamente l’inquinamento atmosferico. L’inflazione è pericolosa politicamente per il partito comunista al governo: è stata l’elevata inflazione ad accendere la miccia delle proteste del 1989 che portarono al massacro di Piazza Tienanmen a Pechino. Il modo migliore per tener sotto controllo l’inflazione sarebbe quello di lasciar rivalutare la moneta tramite i mercati, piuttosto che mantenerne basso il valore e legandola al dollaro. Questa strategia ridurrebbe il costo delle importazioni e permetterebbe alla banca centrale di servirsi della politica monetaria per controllare le riserve valutarie e l’inflazione anziché, come è accaduto negli ultimi anni, piegare la politica monetaria alla politica valutaria. Fino a oggi, le imprese esportatrici hanno fatto pressione, con successo, per impedire una rapida rivalutazione della moneta. Ma il petrolio a 100 dollari per barile sta spostando l’ago della bilancia dalla difesa delle esportazioni verso l’utilizzo della valuta per controllare l’inflazione. Nel corso dell’anno prossimo, pare molto probabile che si vada verso una rivalutazione. Una rivalutazione di questo genere, che sarà probabilmente del 20%, se non di più, introdurrà un grosso cambiamento nell’economia cinese. Riporterà alla memoria il Giappone degli anni Settanta, quando una rivalutazione nel 1970-72, seguita dalla crisi petrolifera del 1973, costrinse l’industria giapponese a spostarsi verso la fascia alta del mercato, entrando in settori più sofisticati, a più alto valore aggiunto, come i semiconduttori, le automobili e la robotica. Questo spostamento verso l’alto potrebbe aiutare la Cina a risolvere anche i suoi problemi ambientali. L’inquinamento dell’aria e l’emissione di gas serra sono peggiorati nel corso degli ultimi cinque anni a un tasso molto più veloce del previsto, poiché l’industria pesante, come l’acciaio, la chimica e la cantieristica, è cresciuta molto rapidamente grazie a una moneta debole e alla grande disponibilità di capitali. Questo scenario è destinato a cambiare, se vi sarà una rivalutazione della moneta in reazione alle pressioni inflazionistiche. La Cina potrebbe reagire anche in un altro modo, seguita dall’India, l’altro grande mercato emergente. Entrambi questi Paesi reagiranno diversificando le loro fonti energetiche per ridurre non solo la dipendenza dal petrolio, ma anche l’inquinamento del Paese e il suo contributo al riscaldamento globale. Sia India che Cina al momento respingono le misure proposte per ridurre le emissioni di gas serra, ma entrambi i Paesi sanno che le pressioni internazionali in tal senso si faranno sempre più incalzanti. Il sistema più facile per diversificare le fonti energetiche e ridurre la dipendenza dal petrolio è quello di ricorrere massicciamente al carbone. Il carbone produce già il 70% dell’energia cinese e il 56% di quella indiana. Ma l’utilizzo del carbone farà aumentare l’inquinamento, con il rischio di proteste interne, nonché di nuove pressioni internazionali. Pertanto entrambi i Paesi aumenteranno gli investimenti nelle fonti alternative: gas naturale liquefatto, che richiede nuovi porti e gasdotti; fonti rinnovabili, come l’eolico e il solare (ricordiamo che l’India è già il più grande produttore mondiale di energia eolica); ma soprattutto rivolgendosi al nucleare. Né in Cina né in India sono state sollevate serie obiezioni contro l’energia nucleare. Riguardo i programmi in corso, l’Agenzia internazionale per l’energia prevede una crescita del 6,5% nella produzione di energia nucleare in Cina nel corso dei prossimi vent’anni e dell’8,3% in India. Ma il barile a 100 dollari significa che gli investimenti nel nucleare saranno molto più cospicui. Si prospettano quindi occasioni allettanti per le aziende europee, americane e giapponesi che dominano la tecnologia dell’energia nucleare, anche se non mancheranno peraltro grossi sforzi da parte del governo cinese per rendere più competitive le aziende cinesi in questo settore.