Alberto Papuzzi, La Stampa 24/9/2007, 24 settembre 2007
Tags : Anno 1901. Raggruppati per paesi. Italia
ALBERTO PAPUZZI
Chi è stato il giornalista italiano più moderno e più capace - per la tecnica delle corrispondenze, per l’efficacia dei servizi, per il senso della notizia - fra quanti hanno praticato la professione tra il 1860 e il 1939, fra l’Unità d’Italia e l’ultima guerra? La domanda è suggerita da due «Meridiani» di Mondadori sul Giornalismo italiano, il primo dal 1860 al 1901, il secondo dal 1901 al 1939, a cura di Franco Contorbia dell’Università di Genova. Un’antologia di oltre 330 articoli di circa 270 autori, ordinata cronologicamente anno per anno. In tutto sono quasi quattromila pagine, di cui 400 dedicate a introduzioni e apparati.
Ci sono poeti (Carducci, Pascoli, Cardarelli, Montale), ci sono artisti (Marinetti o Campigli), tanti romanzieri, da Collodi a Fogazzaro, da De Amicis a D’Annunzio, da Svevo a Campanile, da Soldati a Moravia, da Buzzati a Brancati), commediografi (Simoni), filosofi (Croce), economisti (Luigi Einaudi), scienziati (Lombroso), grandi direttori (Luigi Albertini, Bergamini, Giulio De Benedetti, Pannunzio), leader politici (Mussolini e Turati, Gramsci e Gobetti, i Rosselli e Salvemini, Nenni e Garosci), una messe di inviati (da Bevione a Orio Vergani, da Montanelli a Bruno Roghi). Ma chi è il più bravo e attuale, non come scrittore o direttore, ma come reporter?
La risposta forse suona prevedibile: Luigi Barzini, per la concezione del mestiere e per le straordinari esperienze. Inviato speciale del Corriere della Sera, nel 1900 a soli 26 anni va in Cina per la rivolta dei Boxers, quindi sul fronte russo-giapponese (1904-1905), vede il terremoto di San Francisco nel 1907 e quello di Messina nel 1909, fra l’uno e l’altro trova il tempo per andare a Pechino con il principe Borghese e inviare al giornale dispacci sul memorabile raid automobilistico di 16.000 chilometri fino a Parigi. corrispondente di guerra dalla Libia, dai Balcani e sui campi del primo conflitto mondiale. «Una vita vissuta con un battito tanto accelerato - scrive Contorbia - da promuovere il reporter a protagonista delle vicende narrate».
Ma è sulla tecnica giornalistica che Barzini mostra la sua modernità. La prima corrispondenza dal Belgio invaso dalle truppe della Wehrmacht ha un attacco fulminante: «Ho visto l’agonia del Belgio» (Corriere della Sera del 28 ottobre 1914). lo stile del corrispondente di guerra inglese Philip Gibbs dopo la Marna: «Tutto il giorno ho percorso i campi di battaglia popolati dagli orrori dei recenti combattimenti». Contorbia cita degli appunti di Barzini che mettono in luce la sua consapevolezza delle regole e delle tecniche del linguaggio giornalistico: «1. Ogni avvenimento contiene un elemento insolito che lo differenzia dagli altri. 2. Mettere solo in evidenza i particolari diversi, che danno la fisionomia esatta dell’avvenimento».
Ma sono pochi i giornalisti moderni, in quell’epoca. In questo senso non fanno testo la cronaca di uno spettacolo lirico di Arnaldo Fraccaroli: «La Scala è immersa nell’ombra. Sono le nove. Un silenzio fondo è calato improvviso...». O l’esemplare servizio di Amerigo Ruggiero sulla Stampa nel 1929 per il crollo di Wall Street: «Il cataclisma finanziario prodottosi in questi giorni allo Stock Exchange di New York è forse il più colossale che la storia ricordi». Neppure fa testo l’ironia con cui Indro Montanelli apriva una corrispondenza dalla Spagna su una vittoria dei franchisti nel 1937: «C’era da aspettarselo: non potendo più mobilitare i loro battaglioni, i rossi hanno mobilitato le loro radio».
Il giornalismo che si specchia nei due volumi mondadoriani tende a essere letterario, retorico, più preoccupato dei commenti che dei fatti. il giornalismo di quell’invenzione tutta italiana che è la Terza Pagina, al Giornale d’Italia di Bergamini nel 1901, in occasione della prima di Francesca da Rimini. il giornalismo di Luigi Ambrosini, firma di varie testate, che apriva un’intervista con Croce nel 1908 con «Sono appunto venuto per potervi conoscere più da vicino. Da tempo ho bisogno di rendere conto a me stesso con precisione del come voi siete fatto...». Viene fuori l’origine della stampa italiana da circoli intellettuali o politici, più che da iniziative imprenditoriali.
Non abbiamo avuto una Golden Age, un’età del reporter, come quella americana dove si combatteva la battaglia fra il democratico World di Pulitzer e il repubblicano Journal di Hearst. Sull’età liberale, quando il sistema si organizzava con direttori-editori come Albertini o Frassati, calò l’irreggimentazione del ventennio fascista, con aspetti di modernizzazione (scuole e manuali), ma con una tradizione di subalternità: tutti dovevano essere fascisti, e come ha scritto Enzo Forcella, la questione non era «se sono stati fascisti ma come lo sono stati».
I due Meridiani sul Giornalismo italiano saranno completati da altri due volumi sempre con date simboliche: dal 1939 al 1968, e dal 1968 al 2001, cioè dalla guerra alla contestazione e all’11 settembre. Ci si chiederà di nuovo chi sia il più bravo?
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