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 2006  febbraio 20 Lunedì calendario

L’arma letale che gli ayatollah di Teheran stanno mettendo a punto non è la bomba atomica. Non ha bisogno di uranio arricchito, di centrifughe clandestine, di impianti sotterranei

L’arma letale che gli ayatollah di Teheran stanno mettendo a punto non è la bomba atomica. Non ha bisogno di uranio arricchito, di centrifughe clandestine, di impianti sotterranei. Il suo potenziale distruttivo è di gran lunga superiore all’impatto di un ordigno nucleare. Ed è già in uno stadio avanzato di realizzazione. Si chiama Iob, Iranian oil bourse: un sistema di compravendita del greggio in euro che potrebbe scattare già in marzo, con serie conseguenze per l’economia degli Stati Uniti e per le multinazionali americane del petrolio. Mohammad Javad Assemipour, responsabile del progetto delineato nel piano quinquennale di sviluppo 2000-2005 ed entrato nella fase operativa nel giugno 2004, sostiene che la Iob punta a trasformare la Repubblica Islamica nel principale snodo delle contrattazioni di idrocarburi nella regione. Dal punto di vista geografico l’Iran è situato in un’invidiabile posizione strategica, a ridosso di famelici importatori di petrolio e di gas naturale come l’India, la Cina, l’Europa. Possiede 130 miliardi di barili di riserve accertate di greggio, il 10 per cento del totale mondiale. E vanta i secondi giacimenti di gas del pianeta: 36 mila miliardi di metri cubi. Pozzi, raffinerie, oleodotti, piattaforme off-shore, depositi e terminali petroliferi sono parte integrante del paesaggio persiano, dal Mar Caspio alle sponde dell’Oceano Indiano. Il settore degli idrocarburi assicura il 22,1 per cento del pil, l’80 per cento delle esportazioni e quasi il 90 per cento delle entrate. L’inesauribile flusso di idrocarburi ha consentito al regime di mantenere tassi di crescita economica del 6 per cento l’anno, migliorare il saldo della bilancia commerciale, ridurre il debito estero, accumulare scorte valutarie e alleggerire la pressione sociale sovvenzionando un bene primario come la benzina, venduta a prezzi irrisori. La conversione dai petrodollari ai petroeuro non è priva di logica. Più di un terzo delle esportazioni iraniane di greggio è destinato all’Europa. Il 45 per cento dell’interscambio avviene con i paesi della zona euro. E metà delle riserve valutarie di Teheran è accantonata in euro. Ma le implicazioni politiche e finanziarie di una simile mossa equivarrebbero a una dichiarazione di guerra economica nei confronti di Washington. Oggi il greggio viene quotato in dollari all’International petroleum exchange di Londra (Ipe) e al New York mercantile exchange (Nymex), controllati dalle grandi società occidentali (nel 2001 l’Ipe è stato acquistato da un consorzio di cui fanno parte Bp, Goldman Sachs e Morgan Stanley). I paesi consumatori non hanno alternative e le banche centrali, per far fronte al fabbisogno energetico, devono accumulare riserve in valuta americana, contribuendo a rafforzare l’economia della superpotenza. "" L’ex presidente Hashemi Rafsanjani: la sconfitta dei riformisti e dell’ala pragmatica del regime ha accentuato l’isolamento dell’Iran L’istituzione di una borsa competitiva con transazioni nella valuta europea rappresenterebbe un’aperta sfida all’egemonia del dollaro. Agli attuali prezzi di mercato gli investitori potrebbero infatti scegliere se acquistare un barile di greggio a 60 dollari all’Ipe o al Nymex, oppure a 45-50 euro alla borsa di Teheran. un’ipotesi che incontra il favore dei produttori latino-americani, come il venezuelano Hugo Chavez, di alcuni petrolieri del Golfo, della Russia e della Cina. Dal 2003 Mosca e Pechino hanno cominciato a diversificare in euro le loro riserve strategiche. La rivalutazione dello yuan, nel luglio scorso, è stata accompagnata dalla decisione di affiancare al dollaro, nei forzieri dello stato cinese, l’euro e lo yen. E da almeno tre anni Teheran pretende pagamenti in euro per gran parte del greggio esportato in Asia e in Europa. Nel frattempo i riformatori più inclini a dialogare con il Grande Satana hanno perso la maggioranza nel Majlis, il parlamento iraniano. E in giugno, con l’elezione alla presidenza di Mahmud Ahmadinejad, i rapporti diplomatici con l’Occidente si sono rapidamente raffreddati. Le invettive antisraeliane dell’ex sindaco di Teheran hanno provocato la condanna della comunità internazionale e la cancellazione di una visita del segretario Onu Kofi Annan, mentre la rottura delle trattative con l’Agenzia atomica di Vienna ha accresciuto l’isolamento del paese. La minaccia di sanzioni che il Consiglio di sicurezza dell’Onu potrebbe imporre all’Iran, accusato di perseguire un programma occulto di riarmo nucleare, ha incrementato la propensione di Teheran a stringere alleanze a est: con l’India, che comprerà gas iraniano per i prossimi 30 anni, e con Pechino, che importa il 13 per cento del greggio e del gas dalla Repubblica Islamica e parteciperà allo sfruttamento del giacimento petrolifero di Yadavaran, sul confine iracheno. La Iob è uno stratagemma per spezzare l’accerchiamento. Ma rischia di innescare una reazione a catena dagli esiti imprevedibili. Anche se è improbabile che i maggiori broker di idrocarburi decidano di sbarcare in un paese incluso nell’«asse del male» dal presidente del primo importatore mondiale di petrolio, un mercato parallelo potrebbe a lungo termine calamitare quote non marginali del colossale business. Soprattutto se la tendenza alla svalutazione del dollaro dovesse continuare. L’attuale sistema, in vigore dagli anni Settanta, consente agli Stati Uniti di controllare il mercato planetario del greggio e di finanziare l’enorme deficit federale, appesantito dall’aumento delle spese militari e dagli astronomici bilanci delle guerre in Afghanistan e in Iraq (l’operazione Iraqi freedom è già costata 250 miliardi di dollari). L’amministrazione di Washington non può restare indifferente al ricatto petrolifero lanciato dagli ayatollah: una sfida che rischia di indebolire la valuta di riferimento dei paesi industrializzati, di rallentare la ripresa economica dell’Occidente e di intaccare la supremazia statunitense nel vitale settore dell’energia. Secondo alcuni specialisti, la prospettiva di un brusco declino del monopolio del dollaro nelle transazioni petrolifere, più dei programmi atomici di Teheran, potrebbe spingere i neocon della Casa Bianca e del Pentagono a un intervento militare in Iran (articoli e analisi di Panorama: www.panorama.it/ mondo/medioriente), sotto la copertura di un attacco preventivo contro le installazioni nucleari. Non sarebbe uno scenario inedito. Nel settembre 2000 Saddam Hussein annunciò che l’Iraq non avrebbe più accettato dollari in cambio del greggio venduto nell’ambito del programma Oil for food e ordinò di convertire in euro 10 miliardi di dollari depositati sul conto gestito dalle Nazioni Unite. «Fu quella scelta» sostiene William Clark, esperto di sicurezza e autore di un recente saggio sull’economia del petrolio (Petrodollar warfare: oil, Iraq and the future of the dollar), «a segnare il destino del raìs. Era una mossa politica che si rivelò vantaggiosa nel tempo grazie alla svalutazione progressiva della valuta americana. E che ebbe un peso determinante nella decisione di invadere l’Iraq». Quando i marines arrivarono a Baghdad, il petrolio iracheno fu subito quotato nuovamente in dollari.