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 2006  luglio 11 Martedì calendario

Michele Giordano per ”Chi”, in edicola domani La sera prima della morte di Gianni siamo andati al cinema a Bay Harbour, un centro commerciale di Miami

Michele Giordano per ”Chi”, in edicola domani La sera prima della morte di Gianni siamo andati al cinema a Bay Harbour, un centro commerciale di Miami. Forse un segno del destino ha voluto che scegliessimo Contact, il film con Jodie Foster dove si preconizza un futuro di pace e d’incontro sereno fra mondi lontani anni luce. Sarà solo un modo per trovare un po’ di conforto, ma voglio credere che, prima o poi, io e lui, la sola persona al mondo di cui sia stato veramente innamorato, da qualche parte potremo rincontrarci». Antonio D’Amico, per 15 lunghi anni compagno di Gianni Versace, oggi ha 47 anni. sempre un bellissimo uomo, anche se non ha più quell’aria da ”putto barocco” come lo aveva definito lo stilista quando lo conobbe, una sera del 1982 a Milano, in un ristorante dietro la Scala, rimanendo folgorato da quel ventiquattrenne salentino dalla pelle olivastra venuto al Nord in cerca di fortuna, figlio di una sarta e di un guardiano giurato. Il 15 luglio di nove anni fa, fu proprio D’Amico, per primo, a trovare il corpo di Gianni riverso sui cinque gradini di pietra di Casa Casuarina a Ocean Drive, Miami Beach, dove lo stilista tornava sempre, dopo ogni sfilata, e dove amava chiacchierare a lungo con Antonio, la sera, intorno al tavolone centrale della grande cucina dal pavimento in cotto messicano. «Non potrò mai scordare quei due volti», ci confessa D’Amico, «quello di Gianni in una pozza di sangue e quello di Cunanan, il suo assassino, che si girò verso di me: aveva ancora la pistola in mano e uno sguardo senza espressione, quasi serafico. Solo pochi secondi. Prima di fuggire. Ma quello sguardo è stato un appuntamento fisso nei miei incubi, un’immagine che resterà indelebile nella mia memoria». ’Chi” ha incontrato D’Amico nella sua terra, dove è in vacanza con il nuovo compagno Alberto, un giovanotto in bermuda e grandi occhi azzurri. Attorniato e coccolato dai tanti cugini, D’Amico si riposa a San Pietro Vernotico, a metà strada fra Brindisi e Lecce, 3 chilometri dal regno di Al Bano Carrisi, un paese, come tanti nel Salento, dove negli Anni Sessanta l’emigrazione è stata il solo boom. Dopo un lungo silenzio interrotto da qualche formale intervista in occasione del suo tentativo, fallito, di creare un proprio marchio di moda, D’Amico ha deciso di raccontare e raccontarsi senza censure, in un libro-intervista, Your song, di Rody Mirri, il suo attuale manager. Il titolo del libro, in uscita a settembre per Mediane, è anche quello di un noto brano di Elton John cui è stato chiesto di scrivere la prefazione, vista la profonda amicizia che lega il musicista a D’Amico. Domanda. Chi le vuole male penserà certo che questo libro serva a farsi pubblicità. Risposta. «Se avessi voluto sfruttare la mia storia con Gianni non avrei aspettato nove anni. Oggi mi sento più maturo e il libro che ho realizzato con Mirri altro non è che un romanzo su una bellissima storia d’amore fra due uomini. L’ho fatto per due ragioni: la prima, dare a Gianni il giusto trionfo come uomo, e non come stilista, perché su Gianni Versace genio della moda si sono versati fiumi di inchiostro; la seconda, per far capire alla gente, e ce n’è ancora tanta che non l’ha capito, come e cosa può essere una grande storia d’amore fra due persone dello stesso sesso. Perché su questo tema c’è ancora una grande confusione, creata sia dai media sia dalla politica che ci gioca molto. Per me l’amore non ha limiti nel sesso, nell’atto fisico, ma è qualcosa di più profondo. Vorrei che la gente imparasse a conoscere che può esistere anche un amore diverso, che le menti si aprissero. Senza vittimismi. Io polemizzo con quel mondo gay che fa i ”pride”: non è quello il modo per far capire cosa sei. Da ragazzo ho avuto splendide fidanzate e sapesse quante fanciulle ancora oggi mi corteggiano, solo che verso i 18 anni, facevo il modello, ho capito che l’amore non ha confini». D. La sua infanzia, che racconta nel libro, non è stata felice. R. «Preferisco dire travagliata. Mia madre Evelina, una brava sarta, proprio come la mamma di Gianni, quando si separò da mio padre, che non ho mai più rivisto ed è morto nel 1975, portò me e mia sorella Maria a Milano. Io avevo 3 anni e mezzo, Maria 2. Un grande atto di coraggio per una donna del Sud, in anni in cui dominava una certa cultura della famiglia. E, siccome mamma doveva lavorare per mantenerci, passava l’intera giornata in un’azienda di via Archimede che produceva capispalla. Mia madre, una donna bellissima che somigliava un po’ ad Ava Gardner, oggi è ancora giovane: ha 66 anni. Abita nel Cremasco con la mia seconda sorella Teresa, che ha avuto dal secondo marito, Vittorio, che per me è come un padre. Mamma ci iscrisse alle elementari in un collegio religioso dove ci tenevano da mattina a sera, erano le suore di Santa Giovanna Antiba. E io ero il primo della classe. Lo sono sempre stato, anche dopo, all’Istituto alberghiero. Il primo grande dolore l’ho provato a 15 anni: era Natale. Giocavamo, io e Maria. Quando lei, improvvisamente, si accasciò fra le mie braccia. Mia sorella aveva 14 anni ed era una tipica bellezza del Sud: scura di pelle, capelli corvini. Dissero che la ghiandola del timo le aveva compresso l’aorta. Fu il mio primo, lacerante rapporto con la morte. Un anno tragico, quel 1974: morì, di cuore, anche mio nonno materno Cosimo, che tutta la vita aveva fatto il contadino al mio paese e che mi aveva fatto da padre. L’altro immenso dolore l’avrei vissuto 23 anni dopo a Miami». D. Perché, dopo la morte di Gianni, non ha più avuto rapporti con la famiglia Versace? Nel testamento, lo stilista le ha lasciato una rendita di 25 mila euro e l’uso delle sue case. Lei, però, ha scelto di usufruire della rendita e rinunciare alle case. R. «Dopo la morte di Gianni, per i Versace io non sono più esistito. E, mi creda, non so spiegarmi il perché. In azienda avevo la responsabilità delle licenze della griffe, dei marchi Istante e Versace Sport, degli accessori». D. Ma fu lei a lasciare il gruppo... R. «Diciamo che sono stato messo in condizione di andarmene. Non è una novità che Donatella non mi ha mai amato, neppure durante i 15 anni in cui sono stato con Gianni. Ma non nutro alcun rancore, le assicuro. Certo, mi piacerebbe che almeno Allegra, la figlia di Donatella e Paul Beck, per la quale io sono sempre stato ”zio Antonio” e alla quale ho voluto e voglio un gran bene, un giorno potesse farmi una telefonata. Ma è lei che deve volerlo. Ormai ha vent’anni. Per Allegra credo d’essere stato un importante punto di riferimento. Penso di esserle stato sempre vicino durante le assenze della mamma. Neppure Daniel, suo fratello, che ha 15 anni, mi ha mai cercato». D. Dopo l’uscita dal gruppo Versace, lei ha tentato un solitario abbordaggio nel mondo della moda. Due volte, con due marchi, il secondo, insieme con il suo socio Cavagna, presentato sino allo scorso anno all’Alta Moda di Roma. E non è andata bene. R. «Non ho detto addio alla moda, per ora ho solo accantonato il settore. C’è stato un cocktail di elementi negativi: aziende produttrici che forse non erano all’altezza, un certo ostruzionismo nei miei confronti da parte del mondo della moda istituzionale e, perché no, anche un pizzico di sfortuna tout court. Nonostante tutto, nella prima stagione la mia collezione ha fatturato 5 miliardi e alla presentazione del marchio c’era Elton con il suo attuale marito David Furnish. Non sarò un grande manager, ma ciò non significa che non sia un buon creativo. Comunque, ho bisogno di un periodo di disintossicazione da quel mondo. Ho in mente altri progetti: sto preparando un programma tv, che andrà in onda in autunno, dove intervisterò personaggi famosi dello spettacolo, soprattutto del teatro e del balletto, quelli che conosco meglio per aver lavorato anni e anni a fianco di Gianni nei più grandi teatri del mondo dove lui realizzava i costumi. Lavoro che ho fatto anch’io anche in questi anni, a Basilea, per esempio». D. C’è chi dice che le abbiano proposto anche ”isole e fattorie televisive”. R. « vero, ma non credo che terrò in considerazione quelle proposte. Ho in mente, invece, di aprire un ristorantino sul lago di Garda, vicino alla casa di Padenghe che ho comprato e dove abito quando non sono qui in Puglia. Ogni tanto voglio anche cucinare, visto che ho fatto la scuola alberghiera e sono un buon cuoco. Da ragazzo ho lavorato anche in locali come La Viscontina di Milano e in un grande hotel di Boario Terme». D. Nel libro racconta di un inedito tentativo di suicidio, a Milano, qualche anno dopo la morte di Gianni. R. «Ero sul bordo di un buco nero. Stupidamente pensai che una manciata di pillole di Lexotan potessero riportarmi vicino a Gianni. Mi sentivo solo, respinto. Me la cavai con una notte d’ospedale. Devo molto ai miei amici più cari: Elton John l’ho sentito proprio pochi giorni fa e Maurice Béjart per me è come una sorta di nonno buono che mi ha insegnato molto. Ricordo con grande affetto anche Lady Diana. La sua morte, poco dopo quella di Gianni, fu un altro duro colpo per me: una donna che voleva poter essere anche soltanto Diana, come si firmava nelle lettere che ci mandava, e non per forza e sempre Lady Di, una ragazza piena di vita che amava incontrare gli amici veri, raccontare barzellette, e non meritava quella tremenda fine, con quella fuga dai paparazzi, inconsapevole metafora di una più significativa fuga da un certo tipo di vita con un uomo che non aveva mai smesso di amare un’altra donna». D. La morte di Gianni Versace è stata a lungo dipinta di giallo, si è scritto persino di mafie, anche se ora l’inchiesta è definitivamente chiusa. Lei che cosa ne pensa delle piste dietrologiche? R. «Nel libro prospetto varie ipotesi in modo che i lettori possano farsi una propria idea». D. Ipotesi tali da riaprire l’inchiesta? Come per esempio quella che Gianni Versace conoscesse Cunanan? R. «Questo non sta a me valutarlo. Ma di una cosa sono certo: anche se non mi sento di affermare che Cunanan fosse solo un pazzo maniaco, sono assolutamente certo che Gianni non avesse nulla, ma proprio nulla a che fare con un personaggio come Cunanan». 2 - GIANNI VERSACE E ANTONIO D’AMICO, LIBERI DI AMARE Tratto dal libro ”Liberi di Amare – Grandi passioni omosessuali” di Laura Laurenzi, Rizzoli – ultima parte del capitolo. «In ognuno di noi c’è una parte maschile e una parte femminile: io sono riuscito a tirarle fuori tutte e due e non me ne vergogno.» Gianni Versace Nei solenni funerali nel Duomo di Milano, una settimana dopo l’omicidio, Antonio D’Amico ha un posto al primo banco assieme alla famiglia, ma nessuno degli officianti fa il minimo riferimento alla sua persona. Cancellato, come non fosse mai esistito. Eppure si sente e si comporta come il vedovo. Le esequie sono una scintillante passerella di celebrità, le stesse che affollavano le sue sfilate, ma in nero. Mai visto in chiesa un lusso così elegante, tanto glamour in gramaglie, una simile parata di star. Naomi Campbell è inconsolabile davanti all’urna con le ceneri. I telegiornali di tutto il mondo continuano a mandare in onda le immagini di uno degli ultimi defilé Versace, avvenuto pochi giorni prima a Firenze, una sfilata da uomo coreografata da Béjart, in cui Naomi aveva tirato fuori da una giarrettiera una pistola giocattolo e aveva fatto finta di sparare e di uccidere un uomo colpendolo alla testa. Piange Naomi e si commuove anche Maurice Béjart: non riesce a finire la lettura senza scoppiare in lacrime. Piange Diana d’Inghilterra. Piangono Elton John e Sting, che insieme hanno intonato a cappella il Salmo 23: «Anche se camminassi in una valle tenebrosa, non temerei nulla di male perché tu sei con me». C’è tensione nell’aria. «Fu una messa ingessata», racconterà Elton John. «Il prete volle controllare anche i testi dei salmi che avremmo cantato io e Sting. Fu un’esperienza orribile.» Non mancano polemiche e proteste attorno all’utilizzo del Duomo; il mondo cattolico sembra spaccarsi. «Perché proprio nella cattedrale?» si chiede pubblicamente don Antonio Mazzi, sacerdote mediatico, fondatore del gruppo Exodus. «I funerali si potevano fare in un’altra chiesa. Sugli omosessuali qualsiasi, sui poveretti, la Chiesa fa mille distinzioni moralistiche e poi spalanca le porte del Duomo a Versace? Tutto questo col Vangelo c’entra poco.» All’apertura del testamento tutto il mondo saprà che l’erede universale di Gianni Versace, a capo di un’azienda che fattura oltre 1700 miliardi di lire, è la nipotina Allegra, all’epoca undici anni. La chiamava «la mia principessa » e per lei faceva follie: essendo figlia di sua sorella e di un uomo, l’indossatore americano Paul Beck, cui era stato legato, le voleva bene come fosse la sua bambina. Secondo beneficiario il fratello di Allegra, Daniel, sei anni, su cui Versace volle riversare tutte le sue mirabolanti opere d’arte. Infine un vitalizio per Antonio D’Amico, definito nel testamento «compagno di una vita»: la somma di cinquanta milioni di lire al mese rivalutabili e il diritto di abitare in tutte le case di Versace, dove e come voleva, per tutta la vita. Preoccupazioni economiche, dunque, nessuna, ma un dolore infinito sì, sentirsi «azzoppato», arrivare addirittura a pensare di spararsi, di togliersi la vita con un colpo di pistola alla tempia. Ma D’Amico ha reagito, non si è lasciato andare: «So meglio di chiunque altro al mondo cosa pensava Gianni, un vero combattente. So quanto lui detestava le persone deboli, quelle che non sanno reagire al dolore e alle difficoltà». Lo ha aiutato la fede: crede in Dio, va spesso in chiesa, prega, parla con Gianni. «Aveva un’immensa forza d’animo. L’insegnamento più grande che lui mi ha dato è l’amore per la vita: la vita va vissuta sempre e comunque, qualunque cosa accada. La vita è un dono di Dio.» Uscito dalla Versace sei mesi dopo l’assassinio, D’Amico non ha lasciato soltanto l’azienda, ma in seguito anche Milano: «Ho voluto dare un taglio netto ai ricordi». Ora vive a Desenzano, sul Lago di Garda, dove progetta di aprire un piccolo ristorante. In fondo è uno chef diplomato; nei giorni in cui i cuochi erano in libera uscita era lui a cucinare per Versace, goloso soprattutto di pasta, pasta corta, ricette mediterranee, e di dolci al cioccolato. Con Donatella, entrata e uscita da una clinica per disintossicarsi dalla cocaina, non ha più rapporti da anni: «Il suo atteggiamento è cambiato il giorno della lettura del testamento. Vorrei andare ogni tanto a sostare in raccoglimento davanti all’urna con le ceneri di Gianni, ma non posso. Donatella mi ha proibito di mettere piede negli uffici dell’azienda, figuriamoci nella villa sul lago». Il suo vitalizio, ancorché rispettabile, appare drasticamente ridimensionato. «Non essendo io un parente, le tasse mi decurtano oltre il 65 per cento dell’importo mensile.» Quanto al diritto ad abitare nelle varie dimore di Gianni è stato lui, di sua spontanea volontà, a volervi rinunciare, firmando un documento ufficiale: «Non mi sentivo più il benvenuto nella famiglia, e poi non avevo nessuna voglia di stare lì a litigare. L’ho fatto anche per rispetto a Gianni». La morte del suo compagno – e che morte – lo ha come amputato. «Quindici anni sempre insieme. Ti alzi al mattino e c’è lui accanto a te. Lavori e c’è lui, mangi e c’è lui, vai a dormire e c’è lui, viaggi, vivi, progetti, sogni sempre con la stessa persona a fianco. Credo che in tutto questo tempo siamo stati separati per un lungo periodo soltanto una volta, quando io mi trasferii a Londra per un mese intero perché avevo deciso di imparare l’inglese sul serio e gli proibii di venirmi a trovare: non volevo parlare italiano.» Quanti ricordi. I viaggi in Sudan, in Kenya, in Marocco, nelle isole del pacifico. I regali ricevuti, per esempio i pupazzi di peluche, il preferito è un orsacchiotto biondo: «Gianni era sempre molto tenero con me, molto protettivo, affettuoso, dolce. Mi coccolava». Regali anche più impegnativi: uno è la fede di brillanti di Harry Winston avuta in dono per i loro dieci anni d’amore. Silvana, invece, la sua cockerina spaniel, gliel’ha regalata Elton John, che gli è stato molto vicino nel lutto. «No, non sono andato alla grande festa per il suo matrimonio gay, a Windsor, anche se mi aveva invitato. Sono contrario a cerimonie di quel tipo, all’emulazione dei matrimoni tradizionali. Anche perché di matrimoni felici, attorno a me, ne vedo ben pochi: è un grande scatafascio. Vedo soprattutto situazioni di comodo o addirittura contratti di lavoro: altro che amore.»  contrario dunque ai Pacs, alle unioni civili? «Tutt’altro, sono favorevolissimo. Ma andrebbero firmate in modo sobrio, privato, come avremmo fatto io e Gianni se la legge fosse entrata in vigore in Italia. La strada da percorrere, nel nostro Paese, è ancora lunga. Noi due eravamo una delle pochissime coppie che vivevano la loro storia d’amore alla luce del sole: il nostro era già un matrimonio. E invece in Italia ci sono ancora oggi stilisti molto famosi, figure pubbliche, che vivono nell’ipocrisia, vergognandosi delle loro scelte sessuali.« un grave errore, ci vorrebbe maggiore coraggio. In Italia siamo cinque milioni, quelli dichiarati. Più tutti gli omosessuali che io definisco sottobanco, part time, sposati e no. Se ci muovessimo uniti, se avessimo figure di riferimento famose nel mondo, potremmo vincere molte battaglie per i diritti civili. Conosco storie d’amore meravigliose fra persone dello stesso sesso. Di amore e di dedizione assoluta, di generosità incondizionata. un peccato nasconderle, vergognarsene.» Ciò che invece nasconde Antonio D’Amico – ne parla con estrema circospezione, e ne parla adesso per la prima volta – sono gli «incontri» che ha avuto con Gianni Versace post mortem. Li rievoca senza metterli in discussione, come fossero fatti concreti, e non il miraggio di un uomo che ha molto sofferto: «Mi è venuto a trovare tre volte. Non lo racconto a nessuno perché non voglio essere preso per matto. Soffrivo di insonnia e ogni notte, non mi vergogno a dirlo, piangevo. Chiamavo Gianni, lo invocavo, lo imploravo di tornare da me, di non lasciarmi solo. Poiché mi rifiutavo di prendere qualunque tipo di sonnifero, passavo ore così, a letto, a tormentarmi. «Era settembre, un paio di mesi dopo la tragedia, sa- ranno state le tre e mezzo di notte e io ero perfettamente sveglio, a letto, nella nostra casa di via Gesù, a Milano, dalla quale non avevo ancora sloggiato. A un certo punto, all’improvviso, sento una persona che mi abbraccia. Mi abbraccia forte, quasi da togliermi il fiato. Ho un gran soprassalto, il cuore mi batte all’impazzata. Era Gianni. ”Pensavo che fossi pronto...”, mi dice. «Aveva il volto sereno, quasi serafico, pulito, senza nessuna traccia di sangue. Sono pronto, solo che mi sono spaventato perché non pensavo che tu arrivassi in questo modo, gli ho risposto. Dopo gli ho chiesto: ma chi era questo Cunanan, da dove veniva, perché lo ha fatto? E lui mi ha detto con candore: ”Cunanan era un bravo ragazzo”. Poi mi ha salutato: ”Adesso devo andare, non posso fermarmi oltre, ci rivediamo presto”. « tornato qualche mese più tardi, a gennaio. Ma è stato solo un flash, come se avesse fatto una gran fatica ad arrivare e dovesse andare via subito: ”Non posso stare di più, non posso”. La terza e ultima volta è stato a primavera. Ci siamo abbracciati con trasporto, ci siamo ripetuti quanto bene ci volevamo e quanto ancora continuavamo a volercene. Poi mi ha annunciato che non poteva più tornare: quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro. Ero io che lo chiamavo: per il suo bene, per il bene della sua anima, dovevo lasciarlo libero. Libero di andare. «Tutto questo è avvenuto in modo molto materiale: ero sveglio, ne sono certo, ed ero cosciente, anche se ciò che avevo di fronte, mi rendo conto, era una visione. Ma il suo abbraccio l’ho sentito, ed era un abbraccio forte e vigoroso. Ho sentito il suo peso addosso a me, anche se nel letto non c’era nessuno. E ho sentito le sue parole, anche se comunicavamo mentalmente e nessuno dei due nella stanza ha aperto bocca. Ci siamo salutati per l’ultima volta: lui con un sorriso, io con un pianto dirotto. Rivederlo, sentirlo, dopo lo spavento iniziale mi ha dato una forza immensa. Mi è stato di grandissimo aiuto. Mi ha fatto capire che non finisce tutto con la morte. Andavo in chiesa ogni giorno, pregando Gesù di darmi un segno. L’ho avuto ed è per questo, oggi, che io vivo». Dagospia 11 Luglio 2006