Varie, 17 maggio 2007
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GIUDICI Elvio Langhirano (Parma) 6 gennaio 1944. Critico musicale (ieri di Musica, oggi del Diario e di Classic Voice)
GIUDICI Elvio Langhirano (Parma) 6 gennaio 1944. Critico musicale (ieri di Musica, oggi del Diario e di Classic Voice). Autore de L’opera in cd e video, «il libro che recensisce tutte le edizioni discografiche di tutti i tempi di tutte le opere liriche di tutti gli autori. Dando i numeri: 218 musicisti, 735 melodrammi, 2.336 edizioni solo audio e 250 anche video [...] un libro della vita che è inesauribile strumento di consultazione, oggetto di discussione e vademecum per gli acquisti (il Saggiatore, pagg. 2.417, euro 65). Ma il fascino non sta solo nelle dimensioni kolossal e nell’impresa, come dire?, cul- turalsportiva che un simile one-man-show sottende, perché Giudici le sue duemila e rotte opere se le è sentite proprio tutte e tutte da solo (magari con l’aiuto e certamente con la solidarietà del compagno Giancarlo Cerisola), mentre nella più nota compilazione precedente l’autore, il compianto Rodolfo Celletti, utilizzava oltre alle sue anche le recensioni della stampa specializzata. Il libro di Giudici non è solo un elenco di opere incise, ognuna con casa discografica, anno di pubblicazione, cast completo, giudizio in stelle (da una a cinque) e recensione svariante dalle poche righe alle molte pagine. molto di più: è la più analitica, completa e minuziosa storia di cent’anni ”netti netti”, come direbbe Cio-cio-san, di interpretazione operistica, dato che la prima integrale in disco, I pagliacci diretti da Carlo Sabajno, risale al 1907. I pregi sono molti. In primo luogo, Giudici fa il critico e basta. Non è un maestro di canto né un agente né un press agent né aspirante direttore artistico. Quindi, oltre a pensare quello che dice, dice quello che pensa: due caratteristiche abbastanza rare, nel mondo dell’opera. Leggere per crede- re, a proposito dell’Idomeneo nella versione, bella e incompresa, di Harding-Bondy, la ricostruzione della caduta di Muti dalla Scala, dove finalmente si racconta quel che è successo e non la fantacronaca narrata da giornalisti compiacenti e critici appecorati. Secondo: prima di scrivere, Giudici studia. Così le schede preposte a opere dalla storia editoriale ed esecutiva intricata, tipo il Don Carlos-Don Carlo o Les contes d’Hoffmann o Carmen o Boris Godunov diventano veri minisaggi (anzi, nemmeno tanto mini) praticamen- te definitivi. Terzo: il libro è scritto in italiano, il che può sembrare un apprezzamento curioso ma, inondati come siamo di valanghe di carta che di- venta inevitabilmente straccia a causa di ortografie sperimentali, sintassi creative e punteggiature dadaiste, ”il Giudici” (come lo si chiama nell’ambiente) è una delle poche pubblicazioni che non fanno invocare un’ecologia del libro. Che poi questo italiano sia anche un bell’italiano rientra nei gusti personali. Ma che italiano sia, non ci sono dubbi. Infine, quarto e ultimo e più importante pregio, il volumone appare, a ogni riedizione e ampliamento, un sasso scagliato nella morta gora dell’opera in Italia, una bomba in quel salotto di nonna Speranza che sono i nostri teatri, forse ieri gloriosi ma certamente oggi noiosi. Vedi l’attenzione, che appare addirittura esotica visto quel che passa l’italico convento, per il melodramma barocco, un vero grande ”made in Italy” che negli ultimi vent’anni ha riconquistato tutto il mondo tranne il Paese che l’ha inventato, o quella per l’opera contemporanea americana, un fenomeno rilevantissimo per quantità e qualità (quelle su Little women di Mark Adamo o A view from the bridge di Bolcom o Dead man walking di Heggie, più che recensioni sono rivelazioni). E, soprattutto, in un’Italia dove il mondo dell’opera crede ancora di essere negli anni Cinquanta, il libro è una rivoluzione estetica nel suo postulato di base: che il passato è lo specchio del presen- te e che l’interprete deve cercare il mondo di oggi nei capolavori di ieri invece che rifugiarsi, magari in nome del ”rigore” o della ”tradizione” o di altre scemenze, in un’idea del Bello che coincide poi con la pigrizia intellettuale di fare le cose come si sono sempre fatte. Da qui la rivendicazione, tutt’altro che provocatoria ma benissimo argomentata, di tutte le bestie nere della nostra provincialissima critica. In primis, beninteso, le regie moderne, contro l’archeologia estetica che continua ad ammorbare i palcoscenici italiani e a rimepirli di polvere. Insomma, la scoperta è che l’opera è fatta per il mondo di oggi. Nonna Speranza, addio» (Alberto Mattioli, ”La Stampa” 17/5/2007).