Fulvio Milone, La Stampa 9/2/2008, 9 febbraio 2008
SONO DUE ARTICOLI
La strada non rende onore a «Giuseppe Poulet, patriota», cui è intitolato questo lungo nastro d’asfalto fra brutti palazzi Anni Cinquanta. Sul muro, sotto la targa di marmo scheggiato, campeggia una scritta abnorme: «Polizia di merda». Poco più in là, accanto all’ingresso del bar «Santa Lucia», una mano incerta ha lasciato la sua firma con lo spray: «Skizzato». Strano quartiere il San Cristoforo, zona Fortino. Ci puoi trovare di tutto. Dalle mezze tacche di una mafia che qui ha un solo nome, Nitto Santapaola, ai tossici che la notte si bucano in auto e poi partono a razzo e magari sfondano la vetrina di un negozio; dagli impiegati con il posto fisso ma lo stipendio troppo basso per una casa migliore, agli ultras più cattivi e i «cani di bancata», come chiamano i ragazzi dagli sguardi da duri che il sabato in discoteca possono uccidere per un’occhiata alla fidanzata e la domenica vanno a pestare i poliziotti. Capita che queste realtà si fondano in un curioso magma sociale e che, per esempio, un «cane di bancata» sia figlio di una persona perbene che vive con lo stipendio di operaio in una fabbrica di componenti elettronici. Antonio, 18 anni fra tre mesi, è uno così, grande e grosso, di poche parole: cento chili di muscoli portati con l’arroganza dello «spacchiuso», uno che a scuola era sempre bocciato ma pensa di saperla sempre un po’ più lunga degli altri. Ha tre passioni: il karate, il rugby e il calcio. I primi due sport li pratica, il terzo lo vive con furia cieca da ultrà sulle gradinate della Curva Nord. Il 2 febbraio, nel caos del «Massimino», non si è neanche preoccupato di aver portato con sé il figlio affidatogli da un amico di famiglia, un bambino di 10 anni: l’ha lasciato solo ed è andato ad ammazzare un uomo.
«Sono ragazzi»
In via Poulet, il ragazzo che ha ucciso un poliziotto è già stato assolto con sentenza definitiva. Il benzinaio, il cliente del bar, la casalinga con la bimba in braccio parlano di Antonio come di un «bambinone», raccontandone le imprese con l’ottusa naturalezza di chi si è assuefatto alla violenza. Franco, davanti alla pasticceria, parla con affettuosa indulgenza dell’assassino di Filippo Raciti: «In fondo è un pezzo di pane. Ha fatto qualcosetta, è vero. Una rissa davanti alla discoteca un paio di anni fa, una lite per una donna. Sa come sono i ragazzi... Per quella storia è finito sotto processo, ma è stato assolto». Renato, che la moglie vuol tirare via perché «è meglio non parlare», spiega che Antonio «in passato è stato diffidato per gli scontri allo stadio. E che sarà mai? Per carità, niente di grave». Niente di grave? «Cosette così, fesserie che la polizia ha messo insieme per dargli la croce addosso e accusarlo di un omicidio che non ha commesso».
La facciata del palazzo in cui abita Antonio ricorda quei documentari girati in Albania, con i fabbricati grandi, brutti e ingrigiti dal tempo e con decine di antenne paraboliche proiettate verso il nulla. Nell’androne nessuno si è preoccupato di togliere un albero di Natale da cui rami spelacchiati pendono poche palline di plastica e qualche filo argentato. A guardia della casa del ragazzo, al primo piano, c’è una vecchia zia che ripete a tutti la stessa litania: «Antonio è innocente, non si può immaginare quanto sia buono». Ma giù, in strada, incontri anche chi con l’ammirazione riservata a un eroe ricorda i viaggi in pullman per le trasferte del Catania come percorsi di guerra. «Partivamo, ci fermavamo agli autogrill sull’autostrada e facevamo un po’ di casino. Lui ci stava sempre, non si tirava mai indietro. Uno tosto, insomma. Una settimana fa, allo stadio, può anche darsi che abbia menato le mani. Vabbè, avrà pure colpito uno sbirro, ma certo non voleva ucciderlo».
In questura hanno un fascicolo con il nome di Antonio: una sfilza di diffide per gli incidenti negli stadi di mezza Italia, una lunga serie di foto scattate mentre sale sui bus davanti alla stazione di Catania con il cappuccio della felpa tirata sul capo e lo sguardo truce. I genitori sapevano, la notte non riuscivano a prendere sonno, incapaci di capire quel figlio che puntualmente si scatenava allo stadio. Eppure il padre operaio e la madre, che vende i fiori davanti al cimitero di Catania, hanno tentato di tenere in piedi una famiglia degna di questo nome. Una di quelle famiglie apparentemente tranquille, con la figlia quattordicenne che frequenta la scuola di danza. E con lui, il più grande, l’assassino, che non ha gran voglia di studiare e frequenta un istituto privato nella speranza di prendere un diploma da perito elettronico.
Il rifiuto dell’ordine
Antonio non ha mai accettato tutto questo. Più che alla famiglia, appartiene a una di quelle tribù di sbandati che si formano occasionalmente nelle strade dei quartieri disastrati di tante grandi città, trascorrendo il pomeriggio nella «Palestra di zia Lisa», un improbabile locale buio dove si pratica il karate ma si pianificano pure gli assalti della domenica allo stadio, o sul campo di rugby indossando la maglia dell’«ASD Catania». Ogni struttura che preveda una gerarchia, un ordine riconosciuto, è per quelli come lui qualcosa di intollerabile: il suo gruppo non si riconosce in nessuna delle formazioni di ultras che infestano la Curva Nord del «Massimino». E’ un cane sciolto, «un cane di bancata». E, dalla sera di venerdì 2 febbraio, un assassino.
***
Signor Roberto, suo figlio ha confessato, è stato lui a colpire il poliziotto allo stadio.
«Non ci credo. Il nostro ragazzo un assassino? Impossibile. Cercano un caprio espiatorio».
Eppure, davanti ai magistrati, ha ammesso l’aggressione. Non è così?
«So che è stato prelevato dalla polizia e portato in questura martedì. E’ appassionato di calcio, ha l’abbonamento e alla partita ci va sempre. Tutto qui».
Sapevate che frequentava la curva Nord, il settore più violento?
«Maledetto calcio. Eravamo preoccupati per quella sua passione. Ma lui non voleva ammazzare nessuno».
Sta dicendo che la polizia ha sbagliato persona?
«Sono un padre il cui figlio è accusato di un fatto terribile. Non posso credere che le accuse contro di lui siano vere. Sì, stanno prendendo una cantonata, sono sicuro che prima o poi verrà fuori la verità».
E i filmati?
«Da quelli non si vede nulla. Non è un assassino. Andate a chiedere nel quartiere, parlate con i suoi amici. Tutti vi diranno che in fondo è un bambinone»./
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