Francesco Sisci, La Stampa 6/2/2008, 6 febbraio 2008
FRANCESCO SISCI
PECHINO
Quella dei muri sembra una febbre incontrollabile, dopo quello di Berlino e quello israeliano anche in Asia li vogliono replicare. La Thailandia ne vuole costruire uno tutto suo nella zona della guerriglia musulmana e separatista a sud del Paese, al confine con la Malaysia. Lungo 27 chilometri, dovrebbe impedire il traffico delle armi che arrivano ai ribelli musulmani del luogo. Il nuovo premier, nominato dai militari dopo il colpo di stato del 19 settembre scorso, Surayud Chulanont, ha spiegato ieri che il muro semplificherà le operazioni di controllo della zona.
Negli ultimi tre anni sono morte in queste zone oltre 2 mila persone in una serie di agguati e violente reazioni dell’esercito. Tre anni fa da qui partivano le armi che andavano a finire nelle mani dei ribelli musulmani di Aceh, in Indonesia. Poi, con un accordo a tre tra Indonesia, Malaysia e Thailandia il traffico è stato bloccato, i ribelli di Aceh hanno cominciato a trattare con Giakarta, e a quel punto è cominciata la protesta nel sud del paese.
Anche qui la situazione è complicata: ci sono vari gruppi che agiscono nella zona, e non sono coordinati fra loro, qualcuno vuole trattare con il governo, qualcun altro no, e non si sa chi è poi responsabile di quale attacco. Alcuni ricevono armi e supporto da organizzazioni fondamentaliste musulmane, altri invece hanno una fede religiosa più blanda e chiedono l’indipendenza. La provincia era sultanato indipendente fino alla fine dell’800, quando la Tailandia lo annesse a sé.
Per la verità l’idea del muro non è tutta del premier attuale, ma del suo predecessore Thaksin Shinawatra, deposto nel golpe, che aveva avanzato l’idea un anno fa motivandola col fatto che gruppi di militanti agivano in Thailandia ma poi si rifugiavano in Malaysia. Il governo malese si infuriò per l’accusa e la proposta passò nel dimenticatoio. Oggi viene ripescata con maggior determinazione dopo che una serie di attacchi dinamitardi hanno colpito anche Bangkok il mese scorso.
Di certo è la fine della luna di miele tra generali golpisti e sud insorto. Infatti proprio la protesta in questa zona e il boicottaggio del voto parlamentare in una manciata di seggi elettorali sono stati tra gli elementi che hanno avvelenato la polemica politica tra opposizione filo militare e Thaksin prima del golpe. Ma le radici del muro sembrano essere ancora più profonde: dopo oltre cento anni di confini tracciati e imposti con il filo spinato, sembra che questo non basti più. Il muro di confine, come quello che una volta circondava e difendeva le città, è un’arma di difesa militare e psicologica. un’affermazione di potenza, come la Grande Muraglia in Cina o la linea Maginot in Francia, tanto più formidabile quanto elaborata e monumentale.
L’utilità effettiva di queste opere resta dubbia. La Grande Muraglia fu penetrata più volte dagli invasori mongoli, la linea Maginot fu semplicemente aggirata dall’avanzata nazista. Il muro di Berlino infine divenne il simbolo della chiusura, dell’ottusità e della crudeltà di un regime. Allo stesso modo, il muro thailandese sembra una dichiarazione di frustrazione e impotenza contro i ribelli. Ancor prima di essere costruito somiglia a un avviso: «territorio insicuro», monito non per i ribelli ma per i milioni di turisti che arrivano ogni anno alla ricerca di riposo e relax.