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 2006  dicembre 15 Venerdì calendario

WELBY Mina (Wilhelmine Schett) San Candido (Bolzano) 31 maggio 1937. Vedova di Piergiorgio (26 dicembre 1945-21 dicembre 2006, si sposarono il 5 gennaio 1980) • «La moglie, l’infermiera, l’ombra

WELBY Mina (Wilhelmine Schett) San Candido (Bolzano) 31 maggio 1937. Vedova di Piergiorgio (26 dicembre 1945-21 dicembre 2006, si sposarono il 5 gennaio 1980) • «La moglie, l’infermiera, l’ombra. Fotografata di striscio, di spalle, di sbieco, mai un ritratto di fronte. Lasciata sullo sfondo, voce cui sono concesse alcune battute, non un vero racconto. E il giorno in cui il marito non ci sarà più, per cui si spegneranno le luci e i rumori, cesserà il via vai mediatico e nessun ministro minaccerà più di salire le scale di quella casa, ecco che la sua vita da un momento all’altro tornerà nell’ombra e di lei non si saprà più niente. Prima che questo succeda – e sappiamo bene che è costretta a sperare che succeda al più presto – Mina si merita che per una volta almeno, si parli di lei, della sua esistenza, della sua sventura alla quale regge con una forza e un coraggio degni di un grande personaggio. Sarà perché è una montanara originaria della Val Pusteria o sarà perché la vita con le sue beffe atroci ha provveduto, per forza di cose, a renderla così salda, così intrepida? Chi ha assistito una persona cara nei giorni estremi di una malattia, sa bene quale sia la spossatezza morale che sopravviene in questi casi: soprattutto perché si è costretti a desiderare, ad agognare qualcosa – la morte appunto – di cui si ha orrore e che si vorrebbe, contemporaneamente, in ogni modo, evitare. Cui si aggiunge lo sfinimento fisico per dover essere svegli a tutte le ore, pronti a disposizione e pazienti sempre, possibilmente anche un poco sorridenti, per non mostrare al malato la propria disperazione e il proprio dolore. Ecco, qualsiasi cosa si abbia provato, a Mina Welby è toccato di più e di peggio. Perché anni e anni di assistenza totale, senza un momento di speranza e con tutto quel che sarebbe successo già scritto, anni e anni di battaglia inutile e progressivo degrado fisico costituiscono un peso davvero fuori dal comune, riservato a lei e a quelli cui è capitato il medesimo suo destino. Più di tutto deve essere stato atroce – per lei e per quegli altri – vedere la lenta ma inesorabile trasformazione della persona amata da essere umano normale e anche prestante in tronco morto, gonfiato dai tubi, sfigurato dal male, deturpato, offeso. Del resto, in piccolo, in piccolissimo al confronto con lei, abbiamo provato anche noi lo stesso sgomento alla vista delle foto di prima, della giovinezza e della maturità di suo marito Piergiorgio, accanto a quelle, tremende, di lui adesso. Quel che succederà dopo un poco lo si può immaginare. Pace sì, sollievo forse anche, certamente, infine, riposo; però insieme smarrimento grande, tristezza e vuoto profondi. E ora che faccio? il sentimento che toglie il respiro a chi perde una persona che ha amato e assistito. A Mina Welby, toccherà, in più, lo choc dell’improvviso silenzio, dell’improvviso buio che scenderanno sulla sua vita dopo tanto chiasso. Vorremmo che non le pesassero troppo, che, anzi le portassero sollievo e che, magari, se ne lasciasse, in qualche modo, consolare» (’Corriere della Sera” 15/12/2006) • «Non accetta ancora di perdere l’uomo che ha conosciuto e amato sempre e soltanto insieme a quella maledetta malattia. Non lo ha accettato nemmeno il 14 luglio del 1997: quel giorno Piergiorgio venne tracheotomizzato. Era l’ultima cosa che voleva. Lo ha raccontato lui stesso, di suo pugno in un libro Lasciatemi morire (Rizzoli) ed ogni riga è un cazzotto per le nostre coscienze. ”Quando ho sposato Mina avevamo fatto un patto: se avrò una crisi respiratoria non voglio che chiami soccorso e mi faccia ricoverare...”. Ma Mina non ce la fatta, l’ambulanza l’ha chiamata, quel giorno. Mina non ce la farebbe nemmeno adesso: abbassa gli occhi. Dice, comunque: ”Accetterò e accetto qualsiasi decisione di Piergiorgio. Soprattutto adesso che questa sua decisione è diventata una battaglia di civiltà per questo Paese. Però...”» (Alessandra Arachi, ”Corriere della Sera” 15/11/2006) • «Quando si sono sposati, la malattia di Piero gli aveva già rovinato l’uso delle gambe ma non certo tolto il sorriso e quella voglia di vivere che Mina ha potuto godere nell’intimo, fin dal primo momento che lo ha visto. ”Io e Piero ci siamo conosciuti dentro un ospedale. Piero era lì per alcune sue cure, io per assistere un parente”. Mina aveva quasi quarant’anni, Piero una manciata di anni in meno: il colpo di fulmine li ha portati all’altare in un batter d’occhio. Mina non ha mai avuto paura di quella malattia dal nome cattivo e dall’esito ineluttabile: distrofia muscolare progressiva. Non ci sono farmaci che possono curarla, ancora. Non c’è verso di arrestare il disfacimento progressivo del tessuto muscolare. Non ha paura nemmeno adesso, Mina. E forse nemmeno rimpianto: sì, è vero, a Piero aveva promesso che non lo avrebbe mai fatto attaccare a una macchina. Però anche i primi anni della ”prigione” hanno dato un senso alla loro vita, e anche un senso allegro. Racconta: ”Piero scriveva e lavorava, parlava, mangiava. Era attivo. Nel 2002, poi, ha cominciato la sua battaglia per l’eutanasia. Si è iscritto ai radicali. Gestiva un sito che ha, a oggi, migliaia e migliaia di contatti. Un senso vero, insomma”. E lei insieme con lui. Il suo angelo custode, pacato, sereno. Sorridente. Fino a qualche mese fa. ”Dalla fine dell’estate è diventato tutto diverso. La vita di Piero è letteralmente precipitata in un nulla che non gli permette nemmeno più di scrivere, se non per una mezz’ora al giorno, al più. Ha scritto la lettera al capo dello Stato, a fine settembre, e gli era sembrata già un’impresa. […]» (Alessandra Arachi, ”Corriere della Sera” 10/12/2006).