La Repubblica 20/08/2006, pag.36 Gabriele Romagnoli, 20 agosto 2006
L´estrema vendetta di madama ghigliottina. La Repubbica 20 agosto 2006. Ultimo venne un immigrato musulmano, decapitato dal boia appositamente stipendiato da una nazione cristiana d´Occidente
L´estrema vendetta di madama ghigliottina. La Repubbica 20 agosto 2006. Ultimo venne un immigrato musulmano, decapitato dal boia appositamente stipendiato da una nazione cristiana d´Occidente. Erano le 4 e 40 della mattina del 10 settembre 1977. Il tunisino Hamida Djandoubi salì i gradini del patibolo nel cortile di un carcere senza pubblico. Lo fece a fatica perché gli mancava una gamba, amputata dopo un incidente sul lavoro nel porto di Marsiglia dove era stato scaricatore. Al processo la difesa aveva tentato invano di convincere la giuria che, con l´arto, Djandoubi aveva perduto anche il senno. Non sembrò sufficiente a giustificare l´omicidio dopo le torture inflitte alla sua ex amante, che aveva invano tentato di avviare alla prostituzione. Gli toccò l´ultima corsa della lama di una ghigliottina. Quattro anni più tardi, il 26 agosto 1881, presidente Mitterrand, il suo uso fu abolito. Fine di una storia che contò oltre duecento anni, decine di migliaia di teste mozzate e una singolare tendenza alla vendetta. Come se lo strumento di morte, implacabile nel suo percorso, conoscesse una segreta strada di ritorno. Come se fosse, anche, un boomerang, capace di colpire chi ne promuoveva l´impiego: fossero scienziati, carnefici, sovrani e perfino intere, se così per convenzione vogliamo chiamarle, civiltà. Questa dunque è una controstoria della ghigliottina, quella del suo viaggio inverso e altrettanto letale. Comincia con il suo promotore, a torto scambiato per l´inventore. Il dottor Joseph Ignace Guillotin un´intenzione di certo non l´aveva: quella di legare il suo nome allo strumento di morte. Invece non lo poté impedire, benché abbia cercato di riuscirci per tutta la vita. I suoi veri realizzatori, lo scienziato Antoine Louis e il falegname Tobias Schmidt, tanto ci avrebbero tenuto e non l´ottennero mai. Guillotin fu due volte tradito: la seconda nell´intento. Quel che voleva era un rito pulito, preciso e poco spettacolare. Basta con la scure che non uccide al primo colpo provocando una mattanza sul palco per la gioia del popol sadico. Quel che ottenne fu una cerimonia di massa, con esecuzioni a catena davanti a folle festanti e quell´ultimo gesto osceno: il sollevamento da parte del boia del capo reciso per i capelli o (in caso di calvizie) per le orecchie, in un tripudio malato. D´altronde, lo prescriveva un rigido protocollo. Perché le esecuzioni d´Occidente sono così: più inseguono l´asetticità e più diventano crudeli. L´iniezione letale ora in voga in America viene praticata davanti a due tribune protette da un vetro dove possono sedere i parenti del condannato e quelli della vittima per condividere o assaporare il finale annunciato per anni, resocontato per giorni e minuti fino alla patetica elemosina dell´ultimo pasto. Così la "despettacolarizzata" ghigliottina prevedeva la sequenza: spoliazione del condannato (salvo pantaloni e camicia), taglio dei capelli, taglio del colletto, trasporto al patibolo in carretta, immobilizzazione, decapitazione, esibizione della testa al pubblico. A convincersi che questo metodo fosse ideale fu re Luigi XVI. Esperto bricoleur, volle apportare una modifica: invece della poco affidabile lama a mezzaluna adottata dal falegname tedesco, ne suggerì una obliqua. «Complimenti», gli dissero dopo averla provata. La prima vendetta della ghigliottina fu che si abbatté anche sul suo collo. La seconda fu che, dopo aver funzionato perfettamente per anni, nel suo caso combinò un pasticcio, non riuscendo a segarlo del tutto, lasciandolo a morire dissanguato tra urla atroci e un accresciuto giubilo popolare. Si dice che il boia di Parigi, il leggendario Henri Sanson, pur avendo già eseguito migliaia di tagli perfetti, davanti alla testa coronata si emozionò e fece del suo peggio. Anche per lui era pronta la vendetta dello strumento. Passò infatti il mestiere ai figli e non si perse una delle loro esecuzioni, annuendo orgoglioso a ognuna. Finché un giorno uno dei suoi eredi, mentre culminava la prestazione mostrando la testa mozzata alla folla, ebbro d´entusiasmo cadde dal palco e si sfracellò al suolo. Benché immediata e apparentemente indolore, la sua morte strappò le prime lacrime del boia per un simile evento. La beffa ulteriore fu che, mentre lui smetteva di soffrire, il condannato che aveva appena ucciso ne contemplava la morte. Così è, se vogliamo credere alla teoria per cui il cervello continua a funzionare ancora per alcuni minuti (da due a, addirittura, quindici), ancora irrorato di sangue. Di qui le espressioni di orrore delle vittime, i loro occhi roteanti e lo sguardo beffardo di quel particolare decapitato precipitato nell´anticamera dell´inferno con il suo giustiziere. Tra Nicholas Pellettier (prima vittima, il 25 aprile del 1792) e Hamida Djandoubi, la ghigliottina ha ucciso migliaia di volte. Dalla Francia fu esportata in Asia e Africa. I nazisti la impiegarono con gioia in oltre diecimila occasioni. La sua storia è stata tragica e, inevitabilmente, ridicola. Il vertice dell´assurdo è nel presunto dialogo tra il boia Henri Sanson e la sua regale vittima Maria Antonietta. Lei, emozionata, gli pesta un piede e, in un riflesso condizionato di nobiltà, gli dice: «Pardon!». A ruota seguono il genitore condannato per l´omicidio di un figlio (tal Moyse) che obietta al boia: «Come potete uccidere un padre di famiglia?»; e un presunto marchese che si oppone gridando: «Non potete uccidermi! Sono un siciliano!». Poi, dopo quell´alba del 1977 nel carcere di Aix-en-Provence, la lama obliqua che tante soddisfazioni aveva dato a Luigi XVI smette di scendere. La Francia rinuncia a una sua creatura. L´Europa compie un altro piccolo passo verso la decenza. L´estrema vendetta è lì che aspetta di compiersi. Se l´ultimo giustiziato era musulmano, la decapitazione ritornerà come incubo, benché non tramite ghigliottina, ma più rude coltello, ad opera degli integralisti islamici che vogliono gli infedeli fuori dall´Iraq. In filmati capaci di far rabbrividire quello stesso Occidente che fino a poco più di vent´anni prima si baloccava con la testa nel canestro si compie un rituale non troppo dissimile. Un prigioniero spogliato e infilato in una tuta arancione viene condotto al videopatibolo, sgozzato e la sua testa tenuta per i capelli viene mostrata all´immensa folla del web. E si grida alla barbarie. Come se esistessero un modo civile di uccidere, una giustizia che lo consente, un qualunque livello di tollerabilità che permetta di tenere gli occhi aperti davanti a un´esecuzione. Eppure sentiamo la differenza. Nella confessione della giornalista americana del Washington Times rapita in Iraq che rivela di aver supplicato i suoi sequestratori: «Se dovete uccidermi fucilatemi, non decapitatemi». Nell´analoga richiesta (anche se chiede di evitare l´impiccagione, ma a maggior ragione non vorrebbe conoscere la lama) avanzata addirittura da Saddam Hussein al tribunale che lo sta giudicando. Resta da chiedersi perché la decapitazione spaventa e (quindi) attrae tanto? Probabilmente per il motivo sbagliato (se qualcosa mai può essere giusto parlando di un simile argomento). A generare il terrore è l´atto finale in sé, il momento della morte e il modo in cui avviene. Comunque vada, anche nel caso mal riuscito di re Luigi XVI, cosa di pochi secondi. Nulla in confronto agli orrori veri. Quello del prima: l´attesa interminabile dell´esecuzione, la certezza della sua venuta o peggio ancora la vana illusione di evitarla, i giorni, i mesi o gli anni passati senza poter fare altro che aspettare la fine. E poi l´orrore più grande: quello del dopo. Perché se una cosa ci può pacificare con la morte è il nulla che ne segue, la mancanza di ogni consapevolezza, il silenzio infinito della coscienza. Invece, a voler credere alle più diffuse teorie, il ghigliottinato resta per minuti che valgono eternità a contemplare la propria (non) fine, cristallizzato nel più inaccettabile degli assunti filosofici: l´anticartesismo assoluto «penso eppure non sono». Gabriele Romagnoli