La Repubblica 20/08/2006, pag.44 Stefano Malatesta, 20 agosto 2006
Duveen, l´arte di vendere l´arte. La Repubblica 20 agosto 2006. Ci sono testi che senza troppo parere hanno creato un genere letterario, rivelatosi nello stesso tempo un´impareggiabile chiave di lettura del mondo reale
Duveen, l´arte di vendere l´arte. La Repubblica 20 agosto 2006. Ci sono testi che senza troppo parere hanno creato un genere letterario, rivelatosi nello stesso tempo un´impareggiabile chiave di lettura del mondo reale. La biografia di Joseph Duveen, il più grande mercante d´arte del suo tempo, poi lord Duveen di Millbank, scritta da S. N. Behrman e pubblicata a puntate sul New Yorker tra il 1951 e il 1952 con le illustrazioni di un puro genio, Saul Steinberg, è uno di questi. Naturalmente anche all´epoca, cinquant´anni fa, tutti sapevano che i mercanti di quadri antichi, veri e falsi, tra l´Europa e gli Stati Uniti non facevano parte della Fatebenefratelli. E che molte opere d´arte valevano non solo per le bellezze formali e di composizione, o per una misteriosa emissione di fascinazione taumaturgica che faceva star bene chi li rimirava, ma per essere anche delle commodities, legate ad un sostanziale margine di profitto, che andava calcolato quando i quadri e il resto cambiavano mano e proprietà. Per il resto mancavano informazioni in modo così clamoroso, come una congiura del silenzio, per cui molti sapevano e nessuno parlava, come se il frusciare delle banconote, così gradito quando si trattava di incassare alla svelta, fosse considerato un rumore intollerabile per la morale di chi si occupava del sublime dell´arte. Chi ha interpretato questa impostura meglio di chiunque altro, raggiungendo livelli che si perdono nell´empireo, è stato Bernard Berenson, il sapiente dei Tatti, l´autore dei "Four Gospels", dei quattro vangeli, come venivano chiamati i suoi libri fondamentali, con cui aveva stabilito una volta per tutte i canoni di autenticazione per la pittura italiana del Rinascimento. E consulente, diciamo così, di Duveen. Nello stesso tempo in cui realizzava il suo sogno estatico, circondato dai panorami più meravigliosi del mondo in un clima di febbrile ardore che lo esaltava e lo faceva sentire moralmente puro, sempre alla ricerca dell´arte per l´arte, la sera Berenson scendeva dal suo scranno sistemato poco sotto quello di Dio padre onnipotente per firmare più in basso tutte le expertise dei quadri, quasi tutti veri ma anche qualche falso, che Duveen, più datore di lavoro che socio in affari, stava vendendo ai magnati americani. L´aspetto straordinario di questa come di altre vicende consimili, è che di questi affari non è mai trapelato nulla per un tempo vergognosamente lungo. Nelle centinaia di articoli, memoriette, cronache che tutti gli innumerevoli visitatori dei Tatti, la residenza di B.B. sulle colline di Fiesole, hanno scritto di questa loro fondamentale esperienza, mai una volta qualcuno si è azzardato ad accennare di compensi, o percentuali, per non parlare della parola che stava ad indicare il senso di tutta la vicenda: quattrini. La biografia di Duveen ripubblicata in Italia qualche tempo fa da Enzo Sellerio (S. N. Behrman, Duveen. Il re degli antiquari, 239 pagine, 14 euro) è stata la prima, più vivace, e in certi momenti più esilarante ricostruzione di quel mondo che girava intorno al traffico delle quadrerie classiche. Naturalmente c´erano già state inchieste nei grandi giornali americani e inglesi in cui si raccontavano fatti e misfatti di un mercato molto particolare e riservato. Ma gli articoli rimanevano isolati come pezzi di un puzzle incompiuto e chi aveva tentato di forzare la porta d´ingresso posteriore per raggiungere i camerini veniva additato come un traditore. Tutto refluiva davanti alla facciata posticcia dove ai lettori venivano distribuite notizie che si bevevano come l´acqua fresca, non facevano male e non contenevano nulla che non fosse previsto. Le puntate di Behrman non erano in apparenza minacciose, tutt´altro, e non promettevano rivelazioni sbalorditive. L´autore, noto commediografo, sapeva maneggiare come pochi l´arte del contrappunto e aveva improntato il libro a un tono leggiadro e spiritoso, facendo il verso alla sophisticated comedy degli anni Trenta. Al centro di ogni vicenda c´era sempre lui, Joseph Duveen, visto da giovane e da anziano, nell´intimità o in polpe nelle manifestazioni pubbliche. Era morto da oltre quindici anni e gli inglesi continuavano a trattarlo con la massima deferenza: non era forse stato nominato baronetto con titolo trasmissibile ai figli? E a suo nome non erano state intitolate una strada a lato della Tate Gallery e al British Museum forse la sala più famosa dell´immenso edificio, quella che ospitava i cavalieri greci scolpiti in bassorilievo da Fidia? Behrman ammetteva senza sforzi che Duveen era un uomo straordinariamente pieno di talenti, senza specificare quali. Poi iniziava a raccontare: una volta a New York, dove viveva in un appartamento attrezzato a galleria, una sua amica del gran mondo gli aveva telefonato convincendolo a ricevere un californiano avventuroso, la cui ricchezza spropositata era in stretto rapporto con la velocità con cui era stata ammassata. In quegli anni il mercante aveva perfettamente messo a punto la sua strategia generale, che consisteva nel dividere i clienti in pesci grossi e pesci piccoli - i secondi più rognosi dei primi - e allettare e poi rifiutare di vendere a tutt´e due le categorie, per un tempo anche lungo, qualsiasi cosa uno gli potesse chiedere. E più rifiutava, più veniva incalzato dagli old rogues, i vecchi furfanti come venivano affettuosamente chiamati Pierpont Morgan, Rockefeller, Kress o anche Mellon, autorevole membro del governo degli Stati Uniti e grande collezionista. Perché Duveen non vendeva solo quadri ma qualcosa di molto più interessante: l´immortalità, che costoro cercavano di acquistare proprio con le collezioni che egli andava proponendo. Quando si era messo in commercio, sulle orme del padre, i magnati americani come Morgan, che si faceva fotografare nel suo studio mentre maneggiava il coltello a due lame del West, avevano già comprato il comprabile, mentre le loro ricchezze salivano di mese in mese a livelli mai registrati nelle cronache del genere umano. Ora cercavano di rivaleggiare con le vecchie famiglie, quelle sbarcate con il Mayflower, nei ricevimenti, nell´architettura e nell´addobbo delle magioni, e soprattutto nelle collezioni d´arte. Qualcuno aveva detto loro che i veri signori si distinguevano dal fatto che avessero moltissime opere d´arte in casa ed era patetico vedere come questi vecchi leoni, temutissimi nel loro campo e con una impareggiabile esperienza di mondo, gente durissima che era riuscita a sopravvivere nella giungla darwiniana dell´industria e della finanza Usa, si facessero infinocchiare con due battute da quel finto gentiluomo. Duveen attribuiva tutto il merito dei suoi successi alla simpatia, al fascino e ad un fortissimo intuito psicologico. E non c´era alcun dubbio che incantasse come il pifferaio di Hamelin. Ma un aiuto gigantesco lo riceveva dall´immenso schedario che aveva messo su, dove erano stivate tutte le informazioni riguardanti i suoi clienti, dalle abitudini sessuali al conto in banca, alle verruche che avevano sulla schiena. Per riprendere la storia del californiano, il pesce piccolo fu finalmente ammesso nel sancta santorum di Duveen, dove erano appesi decine e decine di quadri provenienti dall´Europa. E più marciavano per i corridoi, più il pesce piccolo sembrava impressionato, fino a quando, in un momento di sosta, alzò il braccio per indicare un Rembrandt che costava centomila dollari. Alla richiesta del quadro Duveen rispose inarcando a sua volta un sopracciglio, come faceva spesso quando le cose non marciavano bene, e chiese con tono brusco: «Quanti quadri possiede a casa sua?». Il californiano ammise che aveva numerosi dipinti, ma nessuno di grande importanza. «Allora non posso assolutamente venderle un Rembrandt, si sentirebbe troppo solo». Tuttavia fu concesso al poveretto di acquistare un pittore che costava molto meno. Negli anni il pesce piccolo continuò sempre ad andare da Duveen, fino a quando non accumulò così tante opere da sentirsi in grado di chiedere il Rembrandt per portarselo a casa. Ma a quel punto non aveva speso centomila dollari, ne aveva spesi un milione. La tattica usata per un altro pesce piccolo, completamente diversa dalla precedente, avrebbe meritato a Duveen la cittadinanza onoraria di una di quelle città del Levante, Alessandria d´Egitto o Salonicco, dove la fantasia creatrice dei mercanti assurgeva a capolavori d´invenzione. Prima di incontrare un certo Thomson, proprietario di una immensa catena di ristoranti, ricchissimo, si era informato così bene sulla ristorazione e sui suoi problemi che quando i due si misero a parlare sembrava che Duveen ne sapesse molto più del suo interlocutore. Per un´ora andò avanti così. «Guardi», lo interruppe Thomson, che non ne poteva proprio più, «io qui sono venuto per parlare di quadri e non di ristorazione». E Duveen: «Ah, me sciagurato, i quadri. Li ho quasi dimenticati». E per tutta la cena continuò a dimenticarli, fino a quando di colpo se ne uscì con questa secca frase: «A proposito dei quadri, non ritengo che siano nelle sue possibilità, tanto dal punto di vista estetico che da quello finanziario». Thomson lo interruppe: «Quanto contante vuole per questa roba?». E Duveen: «Un milione di dollari». «Li prendo», replicò l´altro. E si sentì nell´aria qualcuno che diceva: «Bingo». I magnati costituivano una grande famiglia di cui Duveen era il "consigliori" amato e temuto per le cose d´arte. Non tutti i ricchissimi potevano entrare in questo giro ristretto: Hearst, il famoso tycoon della stampa, non ne faceva parte, declassato da collezionista ad accumulatore, perché troppo dispersivo, eclettico e volgare nelle sue scelte - dal castello finto ai lama che pascolavano nel giardino di Saint Simeon - e veniva considerato un pesce piccolo. Con le loro arie da superuomini e da gente abituata allo scontro anche fisico i magnati, quelli che alla fine della loro vita avevano speso decine di milioni di dollari in capolavori, ma anche in opere molto discutibili, erano tosti solo in apparenza. La loro libido per dipinti e statue era pari alla loro intolleranza verso qualsiasi rivale. Una situazione che li rendeva clienti ideali per Duveen, il quale riusciva a portarli ai suoi prezzi, e mai che succedesse il contrario. Qualche problema si poneva per il genere di pittura da essi preferita: prediligevano sempre la carne fresca delle schiave, come soggetto su cui meditare, piuttosto che le madonne e i santi che Duveen continuava a proporre su consiglio di B.B. Ostacoli che, quando voleva, il lord inglese faceva dissolvere con un gesto ampio della mano, come un prestigiatore. Una delle poche persone che non subirono il fascino di Duveen fu una ragazza americana, diva del muto, sposatasi poi con Hearst: Marion Davis. Avendo lavorato a Hollywood, aveva una certa esperienza di maschere e di travestimenti e non c´era cascata, definendolo «un commesso viaggiatore in tight». C´erano altri della stessa opinione. Ma il mercante era così abile nei trucchi e mandava così tanti mazzi di rose alle donne dei clienti - figlie, madri, mogli - che i magnati preferivano andare da lui, perché era sempre il più bravo anche nel truffarli. E soprattutto, naturalmente, perché ogni opera era stata sottoscritta da Berenson. Lituano di nascita e ebreo, Berenson aveva capito subito - non ci voleva molto - che quell´accoppiata di provenienza non lo avrebbe portato molto lontano. La decisione di mantenersi agli studi non col magro stipendio da professore, ma entrando a pieno titolo nel mercato dell´arte non fu una scelta sofferta, né gli provocò mai ambasce morali. Come Duveen faceva il mercante senza alcuno scrupolo che non fosse il guadagno, B.B. non esitò un attimo a mettere a disposizione di interessi economici la sua conoscenza sterminata della cultura italiana del Rinascimento. Per cinquantamila sterline l´anno - questa grosso modo era la media dei suoi compensi - insieme a Duveen aveva creato un mercato che non esisteva, dando un nome a migliaia di dipinti che non avevano avuto, fino ad allora, né babbo né mamma. Un´operazione di dimensioni colossali, che venne favorita da fatti indipendenti, come la reinvenzione del Rinascimento ad opera di Burckhardt, i cui echi si facevano ancora sentire negli Stati Uniti, dove ogni magnate voleva rassomigliare ad un condottiero o almeno avere una sua immagine dipinta o scolpita da un maestro italiano. L´unico magnate a non rimanere vittima della tattica mongola messa in atto da Duveen - fuggire davanti al nemico per costringerlo ad inseguirti - fu Henry Ford, il re delle automobili, che si rivelò un finissimo umorista, degno dei fratelli Marx. Anche quel megalomane di Duveen si era reso conto che vendere una qualsiasi cosa ad Henry Ford sarebbe stata un´impresa difficilissima. Chiese perciò l´aiuto di altri quattro grandi mercanti. Così coalizzati, prepararono tre sontuosi volumi illustrati e rilegati in oro che mostravano «le cento opere più belle del mondo», naturalmente in loro possesso, e chiesero udienza a Ford. L´industriale, che abitava in una casa giudicata «primitiva» rispetto a quella di Duveen, li ricevette con entusiasmo e davanti ai libri si estasiò, affermando che non aveva mai visto nulla di simile. «Che meraviglia», disse, chiamando la moglie e la madre a dare il loro parere, «ma chissà quanto costano!». Duveen fece un passo avanti: «Questi non si vendono, sono un regalo per lei. Quelle che vendiamo sono le opere». A questo punto Ford dette una gran manata sulla coscia: «Ma perché dovrei comprare gli originali se questi qui sono così belli e per di più gratis?». La battuta fece il giro degli Stati Uniti e contribuì a far salire ancora di più la vasta popolarità di cui godeva Henry Ford. Stefano Malatesta