La Stampa 20/08/2006, pag.1-16 Luca Ricolfi, 20 agosto 2006
Chi ha paura del debito cattivo? La Stampa 20 Agosto 2006. Mi stropicciavo gli occhi. Credevo di aver letto male, o male interpretato: «Sessanta economisti (di sinistra) firmano un documento contro la riduzione del debito»
Chi ha paura del debito cattivo? La Stampa 20 Agosto 2006. Mi stropicciavo gli occhi. Credevo di aver letto male, o male interpretato: «Sessanta economisti (di sinistra) firmano un documento contro la riduzione del debito». E invece no, avevo letto giusto. Effettivamente quel documento esiste, e chiede a Padoa-Schioppa di non ridurre il debito, anzi gli chiede di lasciarlo crescere alla stessa velocità del Pil, ossia a un ritmo di circa 40 miliardi l’anno. Seguire le raccomandazioni della Commissione Europea, infatti, «implicherebbe tagli significativi alla spesa pubblica e incrementi del prelievo fiscale». Misure che, a quanto pare, non ci piacciono per niente. Da un paio di settimane, ossia da quando il ministero dell’Economia e la Banca d’Italia hanno pubblicato gli ultimi dati sulla finanza pubblica, che mostrano un boom delle entrate fiscali nel primo semestre del 2006, tira una brutta aria per i «risanatori» dei conti pubblici. Se c’è un bonus fiscale di quasi 20 miliardi, perché mai dovremmo apprestarci a digerire una politica di rigore? I sindacati sono preoccupati per i possibili tagli alla spesa sociale. I lavoratori autonomi temono un giro di vite sulle proprie dichiarazioni dei redditi (un po’ bassine, a dire il vero). La Confindustria teme l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, e preferirebbe ben altre misure, come la riduzione del cuneo fiscale o la liberalizzazione degli straordinari. I ministri dei dicasteri «sociali» rivendicano quattrini per le proprie politiche. Lo stesso ministro dell’Economia infine, dopo aver negato che i nuovi dati spostino qualcosa, ora sembra diventato più prudente: a quel che riferiscono le cronache, non vuol sentir parlare di tagli. Naturalmente il problema sollevato dai sessanta economisti non è di quelli che si possono affrontare dati alla mano. Lasciar correre il debito o cercare di abbatterlo è una decisione politica, e non c’è un modo per dimostrare che un’opzione è senz’altro migliore dell’altra. La finanza pubblica si può governare in stile Ciampi, come l’Italia ha fatto nel 1992-2000, con governi di ogni colore, e come recentemente ha fatto il Belgio, che aveva uno dei tre maggiori debiti pubblici d’Europa. Oppure si può governare in stile Tremonti, come l’Italia ha fatto nel 2000-2006, prima con l’ultimo governo di centro-sinistra, poi nel quinquennio berlusconiano. E che la continuazione di quella politica generosa - più spesa sociale, pressione fiscale costante - sia ora più o meno esplicitamente invocata da economisti di sinistra non deve stupire: stupefacente, semmai, è il fatto che quasi nessuno, in questi anni, abbia voluto vedere i tratti keynesiani e «di sinistra» delle politiche attuate dal centro-destra. Ognuno può proporre le politiche che preferisce. Purché non ignori i dati di fatto, e soprattutto non sorvoli sulle conseguenze delle politiche che propone. Chi trova troppo draconiano il Dpef del governo, nonostante rimandi addirittura al 2009 la prima significativa riduzione del rapporto debito/Pil (dal 107% al 105.1%), dovrebbe spiegarci se intende proporre l’uscita dell’Italia dalla Comunità Europea, o se davvero ritiene che Prodi sarebbe in grado di negoziare uno status speciale per l’Italia, unico Paese autorizzato a non ricondurre il rapporto debito/pil verso l’obiettivo del 60%. Ma non basta. Anche ammesso che l’Italia potesse uscire dall’Europa, o starci con speciali privilegi, qualcuno ci dovrebbe spiegare perché mai sarebbe giusto scaricare sulle generazioni future il peso di un servizio del debito crescente, e l’incertezza connessa alle fluttuazioni dei tassi di interesse: già oggi gli interessi sul debito ci sottraggono ogni anno 70 miliardi (il doppio della manovra prevista per l’anno prossimo) e, con il prezzo del petrolio in ascesa, sono destinati a lievitare ulteriormente. Si potrebbe contro-argomentare, come fanno da qualche giorno sindacalisti, politici e ministri, che proprio la crescita record del gettito fiscale rende meno necessaria una legge Finanziaria rigorosa per il 2007. Ma qui sono i dati di fatto che dovrebbero far riflettere. Se non ci si limita ai comunicati stampa ma si legge l’intera massa di dati messa a disposizione nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia, non è difficile accorgersi di alcuni fatti. Primo. La crescita del gettito (+18 miliardi nel primo semestre del 2006) era iniziata già nel primo trimestre del 2006, ossia prima delle elezioni (9-10 aprile). Nel secondo trimestre c’è stata un’accelerazione, ma il suo apporto all’extra-gettito complessivo è molto modesto (meno di 2 miliardi di euro). Dunque è illusorio, almeno sulla base di questi soli dati, pensare che gli italiani si siano già convertiti (o rassegnati) alla filosofia Visco, e che d’ora in poi le entrate affluiranno copiose nelle casse dello Stato. Secondo. E’ vero che il fabbisogno statale, ossia il deficit netto delle Amministrazioni centrali, nei primi 7 mesi dell’anno è migliorato drasticamente rispetto a quello dell’ultimo anno, passando da 49 a 29 miliardi di euro. Ma non si deve dimenticare che il 2005 è stato l’annus horribilis dei conti pubblici, e che nel 2004 i conti erano stati riportati sotto (relativo) controllo solo nella seconda metà dell’anno. Se il paragone viene effettuato con il 2003 o con il 2002 - ossia con due anni di follia «ordinaria» - si vede che il fabbisogno statale dei primi 7 mesi si è semplicemente riallineato sui suoi valori normali, ossia circa 30 miliardi di euro. La realtà è che il bilancio delle Amministrazioni centrali era andato fuori controllo di una decina di miliardi di euro nel 2004, e di un’altra decina nel 2005: il miglioramento dei primi 7 mesi del 2006 segnala solo che i tagli della Finanziaria del 2006 stanno cominciando a dare i primi frutti, almeno sul versante delle Amministrazioni centrali. Terzo. Ai fini del rispetto dei vincoli europei (3% di indebitamento netto) non conta solo il deficit netto delle Amministrazioni centrali, ma anche l’entità delle dismissioni e il deficit aggiuntivo degli enti locali. Su questo versante le cose non vanno affatto bene: le dismissioni previste nel Dpef per il 2006 ammontano ad appena 1 miliardo di euro (contro 17 nel 2003, 8 nel 2004, 4 nel 2005), mentre l’indebitamento delle Amministrazioni locali sta galoppando a ritmi forsennati, presumibilmente per compensare i tagli dell’ultima Finanziaria. Giusto per dare un’idea: il debito delle Amministrazioni locali, che nel 2004 era cresciuto di 5 miliardi, nel 2005 è cresciuto di 11 miliardi, e in base agli ultimi dati disponibili (maggio) sta crescendo a un ritmo di 14 miliardi di euro l’anno. In questo aumento del debito la parte del leone la stanno facendo Comuni e Province, il cui aumento tendenziale è attualmente pari a 9,4 miliardi l’anno. Insomma, speriamo tutti che nei prossimi mesi le cose migliorino ancora, ma il quadro che emerge dagli ultimi dati non è esaltante: i conti vanno un po’ meno peggio che nel disastroso 2005 ma - alla fine - il miglioramento nei conti dello Stato rischia di essere neutralizzato dalle mancate dismissioni e soprattutto dall’indebitamento selvaggio di Province e Comuni (+22,2% negli ultimi 12 mesi). Perciò, cari politici e cari ministri, rassegnatevi ad accettare la realtà: il bonus fiscale (per ora) non c’è. Luca Ricolfi