Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2006  agosto 19 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 21 AGOSTO 2006

Hina Saleem, ventunenne di origine pakistana, è stata uccisa intorno alle 19 di venerdì 11 agosto: il padre Muhammad, lo zio Muhammad Tariq ed il cognato Mahmood Zaid l’hanno sgozzata come un capretto per poi seppellirla nell’orto della villetta di famiglia, in via Dante 133 a Zanano di Sarezzo, Val Trompia, dieci minuti d’auto da Brescia. Il corpo, avvolto in un lenzuolo bianco e infilato in un sacco di plastica nero, era stato isolato dal terreno con la vecchia testiera di un letto ed alcuni assi di legno, la testa orientata ad est, verso La Mecca. [1] «Non volevo che diventasse come le ragazze di qui. Le avevo chiesto di cambiare vita, ma lei non voleva», ha detto il padre subito dopo l’arresto. [2]

«Più che una confessione, quella del padre di Hina è una rivendicazione», ha commentato un’anonima operatrice sociale che lavora con gli immigrati della zona. Giovanni Valenti, responsabile dell’ufficio immigrazione del comune di Brescia, ha definito il delitto «l’apoteosi della spaccatura tra la prima e la seconda generazione di immigrati islamici». [3] Marina Corradi: «Non è cronaca nera quella fossa in un orto della Val Trompia, ma racconta lo strappo lacerante fra due mondi improvvisamente attigui. Dove chi ha fretta di abbracciare la terra nuova può anche essere richiamato spietatamente a ciò che ha dimenticato». [4]

Muhammad Saleem è uno dei tanti pachistani del Gujtrad, distretto alle porte di Islamabad, arrivati nel bresciano negli ultimi venti anni. Il primo permesso di soggiorno risale al ’90. [5] Operaio in una fabbrica di pentole (la ”Giovanni Agnelli” [6]), ai tempi in cui le cose nella zona andavano bene (la Val Trompia è «terra ricca, anzi ricchissima») può essere che sia arrivato a guadagnare anche 2.500 euro al mese (lavorando 12-13 ore al giorno, sette giorni la settimana), di certo aveva messo da parte qualche soldo e si era comprato l’appartamento nella villetta a schiera in cui è avvenuto il delitto (due stanze al pian terreno e due al primo piano, con un fazzoletto di giardino sul retro). [7] Qualche mese fa aveva aperto con alcuni lontani parenti, il Max Kebab di Sarnico, ristorante etnico sul lago d’Iseo. [6]

Hina era arrivata in Italia nel ’99, con lei la madre Bushra Begum, la sorella Kiran (tre anni più grande), moglie di quel Mahmood Zaid che avrebbe partecipato al delitto, i fratelli R. e S. (tre e nove anni più piccoli). Le sorelline N. e K. sono nate in Italia. [6] I primi problemi vennero fuori il 4 marzo 2003. Hina, che era scappata di casa, fu ritrovata dai carabinieri di Villa Carcina, ai quali raccontò: «Si accaniscono su di me, mi accusano di assumere atteggiamenti da cristiana e non da musulmana». Hina parlò addirittura di atti incestuosi: «Nell’allontanarmi gli dicevo: cosa stai facendo? sono tua figlia, lo dico alla mamma. E lui mi ha risposto: lo sa già». [8]

La denuncia fu ritirata (seguì un’incriminazione della ragazza per calunnia). Fabio Poletti: «Qualcuno si ricorda dei lividi in faccia di Hina, forse il prezzo della sua ritrattazione. Altri ricordano che per un certo periodo la ragazza era stata ospite della comunità ”Il muratello” di Nave e poi da lontani parenti a Costa Volpino, dove aveva conosciuto Giuseppe, il carpentiere italiano con cui sarebbe andata a vivere, l’ultimo oltraggio agli occhi di Muhammad Saleem». [6] Ha raccontato Beppe Tempini, la cui denuncia di scomparsa ha portato alla scoperta del delitto: «Io abitavo lì con mia moglie al terzo piano, lei al primo. Poi il mio matrimonio è andata a rotoli, allora ci siamo messi insieme». [9]

La famiglia di Hina, che le aveva combinato un matrimonio con un cugino pakistano, era andata su tutte le furie alla notizia della sua convivenza con il Tempini. E non gradiva nemmeno che lavorasse (da un mese) come cameriera nel bar pizzeria Antica India [10] (la mamma: «non andare là che quelli bevono troppo, bevono whisky» [9]). I maschi, riuniti in consiglio, avevano così deciso di fare un ultimo tentativo per recuperarla (non è certo che avessero in mente di assassinarla fin dall’inizio). L’11 agosto, mancava un quarto alle cinque, il padre l’ha invitata a casa con la scusa di farle incontrare un parente di passaggio. Probabilmente aveva in mente di spedirla in Pakistan dalla madre, in patria con i fratelli per le ferie (o forse per toglierla dai piedi). Forse Hina ha accettato l’invito solo per recuperare dei vecchi vestiti. Fatto sta che due ore dopo quella telefonata già le stavano scavando la fossa. [11]

L’ultima volta che l’hanno vista, nella stradina del centro di Brescia dove abitava con Giuseppe, Hina aveva un paio di pantaloni capresi, una maglietta gialla, infradito ai piedi. Oriana Liso: «Un amore italiano, dodici anni più grande di lei, con un matrimonio finito alle spalle. Un lavoro in un locale dove ogni giorno era esposta agli sguardi della gente, degli uomini, senza veli a schermarla dal mondo. Uno stile da ventunenne, semplicemente, quale Hina era. Nata in Pakistan ma italiana, con la sua pronuncia perfetta, le sue magliette corte e le sue minigonne. E ora ci si chiede: bastano queste tre istantanee di una ragazza a decretarne la morte?». [12]

Secondo il diritto islamico Hina ha commesso il reato di zina, un termine che indica la fornicazione in tutte le sue forme. Farian Sabahi: «Secondo la sharia, la ragazza è colpevole di avere avuto rapporti sessuali prima del matrimonio. Per questo reato il Corano prevede un certo numero di frustate, mentre la Sunna (la Tradizione del profeta Maometto) contempla la lapidazione. Fortunatamente, queste norme non trovano sovente applicazione e quindi non tutte le musulmane che hanno rapporti sessuali fuori del matrimonio sono condannate a morte. Detto questo, il concetto di onore non è soltanto prerogativa del mondo islamico né delle società arretrate, come ci verrebbe da pensare in un momento di amnesia collettiva». [13] Lietta Tornabuoni: «L’atrocità non appartiene ai popoli nè alle culture nè alle religioni, riguarda le singole persone. E noi italiani, capaci di ammazzare un bambino di pochi mesi a colpi di badile, di uccidere e smembrare un uomo d’affari disperdendo e seppellendo i pezzi del suo corpo, di massacrare mamma e fratellino o anche l’intera famiglia, non siamo secondi a nessuno». [14]

La colpa di Hina consisteva nel voler sposare un cristiano. Silvia Introvigne, collaboratrice del Centro Federico Peirone di Torino (studia l’Islam e il rapporto con il cristianesimo): «Tale matrimonio è illecito, secondo la Sharia. Che, tuttavia, non prevede la pena di morte. In circostanze del genere, secondo tradizione, la donna veniva messa al bando, buttata fuori di casa; non uccisa. Ma nel caso di Hina c’è qualcosa di più. Poiché, da quel che si arguisce, viveva more uxorio con il compagno Giuseppe. Si configura allora la consumazione di rapporti sessuali illeciti. Puniti con la morte, per la donna; con 80 frustate per l’uomo. C’è da precisare, però che la pena di morte non è espressamente indicata dalla Sharia. Viene acquisita successivamente nel Diritto islamico, che va formulandosi all’epoca dei primi califfi». [15]

La colpa è dell’islam? Souad Sbai, presidentessa della comunità delle donne marocchine in Italia e membro della consulta islamica presso il Viminale: «La colpa è del maschilismo, di un’intera società che si fonda sul privilegio del sesso maschile su quello femminile. Un privilegio che non si fonda né sulla religione né - come il Marocco dimostra - sulla legislazione». [16] Il Marocco si sta trasformando sotto la spinta modernizzatrice del giovane re Mohammed VI. Giorgio Paolucci: «E invece molte marocchine che stanno in Italia è come se vivessero in un’altra epoca: totalmente sottomesse ai mariti, non sanno leggere e scrivere né in arabo né in italiano (il tasso di analfabetismo è dell’80 per cento), non possono vestire all’occidentale e, in molti casi, restano segregate nelle loro case ”a guardia” di famiglie organizzate secondo i dettami coranici più rigidi». Sbai: «Loro, ”le italiane”, sono più arretrate delle donne rimaste in Marocco: è pazzesco, ma questo è soltanto uno dei paradossi di cui soffre l’immigrazione in questo Paese». [17]

 facile commentare: «I pachistani ammazzano le figlie, le sorelle...». Adriano Sofri: «Facile, ma sbagliato. E non solo, e non tanto, perché non tutti i pachistani fanno così. E neanche perché fin troppi italiani fanno così. Ma, meno ovviamente, perché pachistana è la giovane Hina. Sono pachistane le donne coraggiose che sfidano la prepotenza della tradizione e degli uomini (la tradizione e gli uomini sono quasi un sinonimo), che decidono della propria capigliatura e della propria gonna, che si rifiutano al matrimonio combinato e amano la persona, di qualunque nazione e fede, che si sono scelte. C’è davvero lo scontro di civiltà: fra gli sventurati padri, e generi, e fratelli, pachistani, e le giovani donne pachistane. (’Le madri possono solo piangere in silenzio”). Basta accorgersene, noi, per sapere da che parte stare». [18]

Sarebbe bello che il sacrificio di Hina accelerasse la sconfitta degli oscurantisti di tutto il mondo. Carlo Lucarelli: «Perché loro la perdono, questa guerra. Il movimento verso la libertà e l’indipendenza, verso il progresso, ma in senso buono, che si attiva quando le culture si fondono, è inarrestabile, e lo è anche per le donne. Anche se ci vuole tempo. L’articolo 587, che stabiliva l’attenuante del delitto d’onore, in Italia è stato abolito soltanto nel 1981». [19] Michele Serra: «Il conflitto di civiltà, che per tanti versi è solo il pretesto propagandistico per i signori della guerra di tutte le latitudini, è invece una questione vera, e cocente, quando si tratti di convivere con comunità che conoscono solo la legge del Padre. Questo dobbiamo saperlo, e non possiamo illuderci che sia un conflitto incruento. La nostra legge è per tutti. Ed è, qui in Italia, la sola che vale. Chi non la riconosce, la impari o se ne vada». [20]

L’Italia è al secondo posto tra i Paesi che attirano il maggior numero di immigrati ogni anno: 300 mila persone l’anno, di più solo negli Stati Uniti, un milione (fonte uno studio del centro americano Population Reference Bureau). Servono per far fronte al calo della popolazione causato dalla bassa natalità (-10% in Europa da qui al 2050). [21] I pakistani residenti in provincia di Brescia sono secondo i dati Caritas 8950 (su 110 mila stranieri). Luigi Spezia: «In forte espansione e senza dubbio fattore fondamentale per l’economia della città e della provincia, nell’industria, nei campi, negli allevamenti, anche nel terziario: sono molti a fare distribuzione di pubblicità o a gestire piccoli negozi. L’integrazione è apparentemente riuscita e certamente non sono i pachistani a creare problemi di ordine pubblico. ”Una comunità tranquilla, pochissimi reati e non abbiamo elementi per pensare a personaggi legati all’estremismo islamico”, dicono in Questura, dove ricordano che alla festa del 5 e 6 agosto, al campo di rugby, organizzata dalla comunità islamica di via Volta, si sono riuniti cinquemila pachistani senza che ci fosse bisogno nemmeno di un poliziotto. Se è integrazione vera, però, è difficile dire». [22]

Muhammad Saleem, regolarizzato con la legge Martelli nell’89, carta di soggiorno nel 2001, un paio di mesi fa ha inoltrato in prefettura la domanda per ottenere la cittadinanza. Con una documentazione di questo tipo sarebbe stato difficile negargli il passaporto della Repubblica italiana. Dino Martirano: «E così, ora che il Parlamento si appresta a discutere le nuove regole in parte meno rigide sulla concessione della cittadinanza ai lavoratori stranieri e ai loro figli che nascono in Italia, i partiti di opposizione, ma anche quelli di maggioranza, si interrogano se l’asticella posizionata dal governo Prodi sia sufficientemente alta. Il disegno di legge Amato, varato il 6 agosto dal Consiglio dei ministri, dimezza i tempi di attesa (da 10 a 5 anni) ma introduce un test di lingua italiana e un giuramento di fedeltà alla Costituzione». [5] Mohammed Lamsuni, scrittore marocchino costretto a lavare i piatti per vivere a Torino «C’è un espressione molto in voga ora tra i nostri giovani, dicono bghit passpor ahmar, voglio il passaporto rosso. Significa che puntano solo a un lasciapassare per andarsene liberamente in giro per l’Europa. Non gli importa dell’Italia, di Dante, di Leonardo da Vinci, figurarsi la fedeltà alla Costituzione. Non so nemmeno se bastano dieci anni...». [23]

La conoscenza della lingua e dei valori fondanti la società deve essere un prerequisito per la concessione del visto d’ingresso per ragioni di lavoro o di ricongiungimento familiare. Magdi Allam: «Un test da effettuarsi nel proprio Paese d’origine presso le ambasciate o i consolati europei, che attesti la ferma volontà di intraprendere il percorso dell’integrazione. E che quindi va necessariamente verificato all’inizio del percorso, non alla fine, in prossimità del traguardo della richiesta della cittadinanza. indubbio che l’integrazione comporta un costo: si tratta di stabilire chi deve pagare e qual è il prezzo. Se l’acquisizione degli strumenti atti a favorire il processo di integrazione avviene prima, il costo è individuale, a solo carico dell’aspirante immigrato, limitato alla frequentazione di un corso di lingua, cultura generale e educazione civica. Se, invece, avviene dopo, a pagare siamo tutti noi, la società autoctona d’accoglienza e l’insieme degli immigrati, con un ben più pesante costo in termini di prevenzione, gestione e repressione dei fenomeni di emarginazione ed eversione che scaturiscono proprio dalla difficoltà o mancanza di volontà di integrarsi e di condividere i valori». [24]