Alberto Negri, Il Sole-24 Ore 17/8/2006, pagina 5, 17 agosto 2006
Sfida Hezbollah sulla ricostruzione. Il Sole-24 Ore, giovedì 17 agosto Il mondo di Maha, dentro la casa di Haret Harik, è come se si fosse fermato
Sfida Hezbollah sulla ricostruzione. Il Sole-24 Ore, giovedì 17 agosto Il mondo di Maha, dentro la casa di Haret Harik, è come se si fosse fermato. Sul tavolo, il giornale del 12 luglio è ancora aperto sul programma del festival di Baalbek. la prima volta che torna qui dopo un mese: si siede su una poltrona, accende una sigaretta e guarda la vetrata in frantumi. Poi si alza e sistema delle foto incorniciate dove Maha esplode di gioia circondata da un nugolo di donne sciite che festeggiano il suo ritorno, il 23 maggio del 2000, a Markaba, nel Sud. Gli israeliani due giorni dopo si ritirarono completamente dal Libano e dalla fascia di sicurezza... "Quella sul confine con Israele - spiega - è la nostra casa di famiglia, questa l’abbiamo acquistata dopo che ne fu bruciata un’altra nella guerra civile di Beirut: non facemmo in tempo ad abitarci neppure un giorno. Adesso ricostruiremo qui ad Haret Harik e anche a Markaba, dove, secondo l’Unifil, il 50%, delle case è stato distrutto". La famiglia di Maha, in queste settimane rifugiata da amici, è già in marcia verso il Sud, con altri 600 mila: " la tipica mentalità libanese, appena finiscono i combattimenti tutto ricomincia come prima". Ma questa volta a Sud del fiume Litani dovranno ripartire da zero: Khiam, Marjayoun, Markaba, Hulun, sono nomi di villaggi che non esistono più. Fuori l’aria è irrespirabile, la polvere si mescola alle esalazioni dei cadaveri e dei detriti. Dalla terrazza di Maha Zaraket, 28 anni, giornalista, si vedono la casa bombardata dello sceicco Hussein Fadlallah, il capo spirituale degli Hezbollah, la tv al Manar, livellata dai raid, e le rovine di decine di palazzi anonimi della Dayeh, "cintura della povertà" dove vivono 500 mila sciiti. Per arrivare nel feudo di Hassan Nasrallah, il turbante nero che canta vittoria, si aggirano crateri, piloni dei viadotti crollati, cavi dell’elettricità ondeggianti a mezz’aria come liane, sfiorando nel percorso i campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila. "Il Libano appare sempre in bilico tra il miracolo e la catastrofe", osserva Issam al-jourdi, capo della redazione economica del quotidiano al-Akhbar, Le Notizie. Un giornale che è pure un mezzo miracolo, perché ha pubblicato il primo numero lunedì, il giorno della tregua, in un Paese dove, oltre alla benzina e al resto, non c’è più carta. "Tornano a casa i profughi, la gente ha voglia ripartire: qui negli anni ’90, alla fine della guerra civile, abbiamo investito 50 miliardi di dollari. Siamo degli esperti in ricostruzioni. Il problema è che esistono i libanesi ma non il Libano, cioè lo Stato. E la destabilizzazione, il ritorno delle contrapposizioni settarie, incombe sul nostro destino". Nelle banlieue di Beirut gli islamici hanno cominciato la battaglia della ricostruzione. I bulldozer spianano le macerie, giovani con la mascherina scavano e ripuliscono le strade sotto i ritratti di Nasrallah, le bandiere gialle Hezbollah e quelle libanesi. Il capo ha promesso un anno di affitto gratis per le famiglie che hanno perduto la casa e la banca degli Hezbollah, un istituto che segue le regole coraniche dei prestiti senza interessi, ha annunciato dai 10 ai 20 mila dollari di credito per coloro che vogliono ricostruirsela da soli. Il welfare state Hezbollah, che si è guadagnato una reputazione costruendo scuole, ospedali, dispensari, distribuendo l’acqua agli abitanti di città e campagne, si prepara a fare concorrenza al Governo del premier Fuad Siniora "Si dice che gli islamici sono uno Stato nello Stato. In realtà sono uno Stato dentro a un non-Stato", commenta con ironia Amal Ghorayeb, dell’Università americana di Beirut. La vera concorrenza degli Hezbollah nella corsa alla ricostruzione non è rappresentata dal Governo ma dai tycoon libanesi, uomini d’affari e allo stesso tempo anche leader politici. Questa è la versione aggiornata - ma non troppo - della "Repubblica dei mercanti”, quella dei cristiano-maroniti, dei sunniti, dei greci ortodossi e cattolici, degli armeni, che ha dato vita al Libano dopo la fine del mandato francese. La famiglia Hariri ha annunciato che ricostruirà i ponti intorno a Sidone, feudo elettorale dell’ex premier Rafik assassinato nel 2005, gli Hourani quelli della loro città natale, Marjayoun, mentre Najib Mikati, ex primo ministro e capo della Mikati Telecom, rifarà il grande viadotto di Mafdoun. Una generosità un po’ interessata: il fratello di Hariri, Chafik, ha un’impresa, la Geneco, che costruisce ponti, gli Hourani sono anche loro grandi costruttori. Il Governo vorrebbe incanalare i fondi privati in una Cassa comune per coordinare i lavori e dire la sua: i danni alle infrastrutture, calcola, ammontano a oltre 3,5 miliardi. Ma i danni a lungo termine per l’economia sono ancora difficili da definire. Sono state bombardate 94 strade, sbriciolati 80 ponti, danneggiati porti, aeroporti, telecomunicazioni, reti elettriche. Da 10 a 15 mila le case distrutte o colpite, 900 le aziende e le attività commerciali. Da 2 a 3 miliardi di dollari la valutazione delle perdite nel turismo e nelle industrie. Ma lo Stato libanese dipende dalla Repubblica dei mercanti, dalle grandi famiglie, dalle banche. La Borsa ha riaperto rilanciando con un’impennata del 5% le azioni Solidère, la società di Hariri, e mentre lo Stato ha debiti per 35 miliardi di dollari, le banche vanno a gonfie vele e contano su depositi al 70% in dollari. Sulla terrazza di Haret Harik il mondo di Maha intanto si rimette in moto. Squilla il telefono. Sono gli amici rimasti a Bint Jbeil, il campo di battaglia più furibondo della guerra: "La città dicono che è a pezzi ma non si preoccupano: i soldi per rifarla verranno, come sempre, dai loro emigranti, a Detroit. Sono così tanti e ricchi che Bint Jbeil si sente la capitale del Michigan". Alberto Negri