Paola Zanolli, La Stampa 13/8/2006, pagina 35, 13 agosto 2006
Lasciare Dio per un carcerato. La Stampa, domenica 13 agosto «Sette suore, negli ultimi due anni, hanno lasciato la strada del Signore per sposare i detenuti conosciuti mentre si occupavano di volontariato penitenziario all’interno del carcere delle Vallette
Lasciare Dio per un carcerato. La Stampa, domenica 13 agosto «Sette suore, negli ultimi due anni, hanno lasciato la strada del Signore per sposare i detenuti conosciuti mentre si occupavano di volontariato penitenziario all’interno del carcere delle Vallette. Ma per tre di loro, purtroppo, il matrimonio non è andato a buon fine». A rivelarlo è Costantino Quaglia, 90 anni, da oltre mezzo secolo in prima linea nell’assistenza ai detenuti e alle loro famiglie, prima come funzionario delle cancellerie della Corte d’Assise, poi segretario della San Vincenzo. «Alcuni di loro - precisa - sanno essere dei grandi affabulatori, bisogna sempre stare in allerta: pur di ottenere aiuto inventano mille disgrazie e mille situazioni incresciose, ingannano chi hanno di fronte per avere quello che vogliono, fosse anche solo una lettera attestante la buona condotta tenuta dietro le sbarre. E alcune sorelle si sono rovinate la vita per aver riposto troppa fiducia in loro». Quaglia non vuole approfondire l’argomento. «Ho già detto troppo, la mia parola d’ordine è "riservatezza"», ripete lasciandosi sfuggire che, forse, in alcuni casi il motivo della rinuncia al velo per un «amore proibito» può ricercarsi nella giovane età in cui alcune sorelle decidono di accogliere la vocazione religiosa. «La scelta - dice infatti - spesso avviene tra i 15 e i 25 anni, periodo in cui sono ancora forti i condizionamenti di scuola, amici e famiglia». Ma informa che proprio per evitare che troppe suore abbandonino il velo portando all’esasperazione il loro bisogno di rendersi utili e risolvere problemi veri o presunti degli altri, sono state inasprite le regole per partecipare all’opera di redenzione dei detenuti. Ora bisogna infatti sostenere un esame, previo un corso di preparazione di 15 settimane. Alla fine della parte teorica si trascorre un’intera giornata all’interno del carcere con docenti universitari, magistrati, guardie penitenziarie, medici e psicologi. «E da quando hanno cominciato a verificarsi storie sentimentali tra volontarie e carcerati - spiega Quaglia - abbiamo imposto anche altre norme: innanzitutto quella di non innamorarsi mai dei detenuti, seguita da quella di non credere a tutto quello che dicono e cercare i riscontri a quanto raccontano per evitare brutte sorprese. E’ inoltre fondamentale essere sempre un po’ spietati nei rapporti con loro: è impossibile pensare che siano sinceri, e solo provocandoli si può avere la certezza che la verità, tassello fondamentale per poterli aiutare a sanare certe situazioni, venga a galla». Superato l’esame, i volontari possono cominciare ad occuparsi direttamente dei carerati. Nel solo carcere delle Vallette, il «Lorusso e Cotugno», nel quale vengono registrati una media di 12 mila ingressi di detenuti in attesa di giudizio all’anno, sono circa 250 gli assistenti volontari penitenziari. E tra loro vi sono moltissime «Figlie della Carità», la congregazione femminile fondata da San Vincenzo de’ Paoli nella Francia di Luigi XIV e specializzata nelle attività assistenziali e ospedaliere. La loro regola, redatta nel 1803, prevede, accanto alla consacrazione della vita a Dio nel nome della castità, della povertà e dell’obbedienza, i tre voti comuni a tutte le Suore, anche e soprattutto il servizio spirituale e materiale ai poveri. «Chi tra loro sceglie di dedicarsi al volontariato penitenziario - precisa Quaglia - si ispira a San Cafasso, patrono dei carcerati, popolarmente conosciuto come il "prete della forca", a cui Torino ha dedicato un monumento al rondò della forca (incrocio tra corso Valdocco e corso Regina Margherita), dove per parecchi anni si eseguirono le impiccagioni». Il lavoro dei volontari consiste nell’ascoltare i detenuti, le loro necessità, le loro storie, senza invadere il campo del magistrato e dell’avvocato. Vanno a visitare le loro famiglie affrontando situazioni disastrose sotto il profilo materiale e morale. «Andiamo là dove gli altri, e qui mi rivolgo alle istituzioni, pur sapendo non intervengono» spiega ancora il decano dei volontari. Si tratta dunque di una missione che non si concretizza soltanto nell’assistenza, nella fornitura di biancheria e abiti puliti, ma va più a fondo. «Il nostro obiettivo è arrivare ad una completa partecipazione alla vicenda umana dei detenuti, senza mai giudicare ma cercando di fargli ritrovare la via dell’onestà. E alcuni ci riescono: la percentuale è modesta, ma è già una grande conquista per la società», precisa Quaglia. Paola Zanolli