Paolo Mastrolilli, La Stampa 15/8/2006, pagina 25., 15 agosto 2006
Così fu suicidata la star del secolo. La Stampa, martedì 15 agosto New York. Marilyn è nuda, riversa con la faccia in giù sul materasso
Così fu suicidata la star del secolo. La Stampa, martedì 15 agosto New York. Marilyn è nuda, riversa con la faccia in giù sul materasso. La sua mano stringe ancora la cornetta del telefono, per l’ultima conversazione disperata che non conosceremo mai. Sono passate le tre di domenica mattina, 5 agosto 1962, e così il sergente Jack Clemmons del West Los Angeles Police Department trova ciò che resta di un mito del ventesimo secolo. Lo hanno chiamato Eunice Murray, governante della casa di Brentwood, Ralph Greenson, psichiatra della signorina Monroe, e Hyman Engelberg, il suo medico. Sostengono che si è tolta la vita, mostrando le boccette di barbiturici Nembutal che avrebbe svuotato per suicidarsi. Clemmons ha visto qualche cadavere in vita sua e questa storia non gli torna: chi si ammazza con i tranquillanti muore contorcendosi, e poi i lividi sul corpo danno l’impressione che il cadavere sia stato spostato, dopo il decesso. Per non parlare della governante, che quando lui è arrivato stava lavando lenzuola nella lavatrice, alle quattro del mattino. Del resto anche il dottor Thomas Noguchi, che ha fatto l’autopsia, ha scritto che il suicidio è la «causa probabile», perché non ha trovato traccia di barbiturici nell’intestino di Marilyn. Secondo Murray, Engelberg e Greenson, le cose sono andate così. L’attrice si era svegliata inquieta la mattina del 4 agosto, perché, come spesso le capitava, non aveva dormito bene. Aveva litigato con Pat Newcomb, la sua adetta stampa, e verso l’una aveva cominciato una seduta di terapia con Greenson. A metà pomeriggio era uscita per un giro in auto con Eunice al volante, poi era tornata a casa. Alle 7,15 aveva parlato al telefono con Joe DiMaggio, che l’aveva informata di aver rotto il fidanzamento con una donna che lei non sopportava. Marilyn, che progettava di risposarsi con il campione di baseball, era rimasta così contenta da chiamare Greenson per avvertirlo. Alle 7,40, però, era già un’altra donna. Stavolta l’aveva chiamata Peter Lawford, cognato del presidente Kennedy, per invitarla a una cena nella sua casa davanti all’oceano. Lei aveva rifiutato. Con la voce impastata e depressa di una drogata, aveva detto: «Salutami Pat, salutami il presidente, e salutami te stesso, perché sei un bravo ragazzo». Lawford, preoccupato, aveva chiamato ancora, ma aveva trovato occupato. Quindi aveva chiesto a degli amici di andare a controllare come stava Marilyn. Verso le nove o le dieci la Monroe si era chiusa in camera per andare a letto, ma siccome dopo le tre del mattino la luce trapelava ancora sotto la porta, Eunice aveva deciso di verificare. Era entrata e aveva trovato l’attrice sul letto, svenuta. Aveva chiamato Greenson che era corso a Brentwood. Un breve esame era bastato a capire la verità: Marilyn era morta, suicida. O no? Perché le cose potrebbero essere andate diversamente. Per esempio così. Il dottor Greenson stava cercando di togliere alla Monroe la dipendenza dai barbiturici, e quindi per aiutarla a dormire chiedeva ad Eunice di farle clisteri di cloralio idrato. La sera del 4 agosto, visto quanto era scossa Marilyn, aveva ordinato proprio questo trattamento. Lo psichiatra, però, non sapeva che il giorno prima il suo collega Engelberg aveva rifornito la Monroe di Nembutal, che lei aveva continuato a prendere per tutta la giornata. Il guaio è che i barbiturici, mescolati al cloralio idrato, diventano un veleno mortale. Quindi Greenson, col suo clistere, avrebbe inavvertitamente ammazzato Marilyn. Altrimenti non si spiegherebbe quella frase dello psichiatra, che qualcuno sentì la notte della tragedia: «Dannazione, Hyman le aveva dato delle medicine di cui non sapevo nulla!» Da qui sarebbero nati tutti i goffi tentativi di Eunice e Greenson per coprire le tracce del loro errore, tipo chiamare la polizia qualche ora dopo la morte, con la scusa che prima dovevano avere l’autorizzazione della casa cinematografica di Marilyn. Oppure no? Perché, se non fosse andata così, se la morte della Monroe non fosse stata un’«overdose accidentale», quali sarebbero le alternative? Per esempio, può darsi che Eunice e Greenson non si fossero affatto sbagliati. Marilyn voleva liberarsi di entrambi, soprattutto in vista del nuovo matrimonio con DiMaggio. Anzi, secondo alcuni li aveva già licenziati, e quindi governante e psichiatra potevano avere i loro motivi per eliminare l’ex datrice di lavoro e paziente. O no? Perché se non fosse andata neppure così, quali sarebbero le alternative? Per esempio, tutto il mondo che contava sapeva della relazione tra Marilyn e il presidente Kennedy. Qualcuno sosteneva pure che lui l’avesse mollata per passarla al fratello Bob. Comunque sia, lei sognava di prendere il posto di Jacqueline come first lady e, quando aveva capito che questa fantasia stava sfumando, aveva cominciato a tempestare John di lettere e telefonate imbarazzanti alla Casa Bianca. Non solo, ma aveva minacciato persino di convocare una conferenza stampa, per raccontare tutta la verità sulla sua relazione proibita col presidente. Quella sera del 4 agosto, qualche testimone ha detto di aver visto proprio Bob Kennedy nella casa di Brentwood. Accompagnato dalla scorta era entrato insieme ad alcune persone, e verso mezzanotte lo avevano visto andare via. Ma cosa ci faceva in casa di Marilyn, ammesso che fosse lui? Magari era venuto a fare un lavoro per il fratello, svegliando l’attrice dal suo sogno: il presidente non la voleva più vedere e sentire. Lei non sarebbe mai diventata la first lady degli Stati Uniti. Se questa era la sua missione, potrebbe aver contribuito a deprimere la Monroe fino al suicidio. Ma se invece era venuto per se stesso, cosa potrebbe aver fatto? Eliminarla e poi far sparire tutte le prove? Perché sennò come si spiega il famoso «diario rosso» di Marilyn, sparito dalla sua casa? E come si giustificano tutti gli errori commessi dalla polizia scientifica, che permise quasi a chiunque passasse di contaminare la scena del potenziale delitto? E come si potrebbe conciliare la scomparsa di parecchi dati delle analisi fatte sul cadavere, con la fama di precisione dell’Istituto di medicina legale di Los Angeles? Del resto, quella sera qualcuno ha raccontato anche di aver visto un’ambulanza che partiva dalla casa di Brentwood verso le undici e poi tornava in piena notte. Allora magari la Monroe era morta, il suo cadavere era stato trasportato da qualche parte per nascondere le tracce che potevano consentire alla polizia di risalire alla verità, e poi era stato rimesso al suo posto. O no? Perché se non fosse andata neppure così, cos’altro potrebbe spiegare la fine di una ragazza di 36 anni bella, famosa e piena di progetti? Voleva risposarsi, voleva dare una svolta alla sua carriera, voleva mettersi a recitare Shakespeare, secondo i nastri segreti che aveva registrato durante le sedute col suo terapista. Allora perché uccidersi? Tutti sanno, per esempio, che l’Fbi la spiava come pericolosa comunista, dopo il matrimonio con Arthur Miller. Dicono che il tetto della sua casa fosse zeppo di microfoni, per registrare ogni parola e ogni mossa. Allora magari l’Fbi aveva deciso che era ora di farla finita con l’attricetta che sapeva troppo? Oppure era la Cia che voleva zittirla, perché in qualche momento di debolezza Kennedy le aveva raccontato segreti devastanti sui tentativi di eliminare Fidel Castro, dopo il fallimento della Baia dei Porci? Forse era la mafia che ce l’aveva con lei, dai tempi delle relazioni pericolose con Frank Sinatra, che le aveva regalato persino un cagnolino di nome «Maf». In fondo Bob Kennedy era stato un persecutore di Cosa Nostra e punirlo negli affetti era l’idea più crudele. Oppure era stato Jimmy Hoffa, il sindacalista sparito nel nulla qualche anno dopo, che ce l’aveva tanto con i fratelli Kennedy da volersi rifare accoppando loro l’amante. O invece era ancora la Cia, che si era legata al dito la figuraccia della Baia dei Porci, attribuendola alla corte di «Camelot», e adesso voleva far piangere il presidente eliminando la donna che gli aveva fatto gli auguri più sensuali della sua vita al Madison Square Garden. Di sicuro c’è che nel 1982 la Procura di Los Angeles ha riaperto l’inchiesta sulla morte di Marilyn: ha concluso che non ci sono prove di reati, ma ha aggiunto pure che le indagini del ’62 furono una fiera degli errori. Ogni fantasia di complotto, quindi, conserva il suo diritto a restare in vita, nella danza macabra che continua intorno a quel corpo nudo di donna. Paolo Mastrolilli