Giuseppe Culicchia, La Stampa 13/8/2006, pagina 23, 13 agosto 2006
Muri. La Stampa 13/8/2006 Dopo la caduta del Muro per antonomasia, quello di Berlino, e prima dell’edificazione del più modesto ma a ogni buon conto significativo Muro di Padova, destinato nelle intenzioni del sindaco diessino di quella città del già miracoloso Nord-est a isolare le palazzine abitate da migranti-spacciatori (e chissà le reazioni «a sinistra del Partito comunista cinese», come diceva Fantozzi quando il Pil della Cina era un altro, nel caso il sindaco in questione fosse stato un leghista o magari un nazional-alleato), in Europa era già caduto un altro muro
Muri. La Stampa 13/8/2006 Dopo la caduta del Muro per antonomasia, quello di Berlino, e prima dell’edificazione del più modesto ma a ogni buon conto significativo Muro di Padova, destinato nelle intenzioni del sindaco diessino di quella città del già miracoloso Nord-est a isolare le palazzine abitate da migranti-spacciatori (e chissà le reazioni «a sinistra del Partito comunista cinese», come diceva Fantozzi quando il Pil della Cina era un altro, nel caso il sindaco in questione fosse stato un leghista o magari un nazional-alleato), in Europa era già caduto un altro muro. In verità, molto meno leggendario rispetto alla barriera istoriata da graffiti che fino al 1989 tagliava in due la Friedrichstrasse, ma comunque assai simbolico: quello che, ancora poco tempo fa, separava l’italiana Gorizia dalla slovena Nova Gorica. Intanto però Israele, Paese che molti considerano e vorrebbero europeo, aveva cominciato a tirarne su un altro ben più massiccio, illudendosi così di mettersi al riparo una volta per tutte da bombe e attentati più o meno integralisti, senza però aver fatto i conti con gli odierni razzi di Hezbollah. Morto un muro, insomma, se ne fa un altro. Magari altrove. La questione dei muri, va da sé, è da sempre e forse oggi più che mai anche inevitabilmente metaforica. Poco meno di vent’anni fa, all’epoca di quella Guerra fredda per la quale, ormai, c’è chi ha quasi nostalgia, ne parlava da oltrecortina soprattutto Christa Wolf. Ad esempio in libri come Cassandra e Il cielo diviso (editi in Italia da e/o), assai letti anche al di qua della linea di confine controllata dai Vopos fino a quando dagli archivi della Stasi non saltò fuori che la scrittrice si era resa complice del regime collaborando, pur saltuariamente, con l’ex polizia segreta della Ddr. Poi, in un mondo che specie in Occidente faceva già intravedere il progressivo accentuarsi del distacco tra i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi (anche se nessuno osava ancora immaginare i poveri che passavano le vacanze a fotografare e filmare le barche dei ricchi, eternamente all’ancora nei porti della Sardegna malgrado i balzelli di Soru e gli appelli di Briatore), i muri a un certo punto sono diventati materiali da costruzione per romanzi ambientati in un futuro prossimo venturo. Ne scriveva con un certo anticipo, fin dalla metà degli anni Settanta, uno come J.G. Ballard: innanzitutto in un romanzo come Il condominio, che anticipava le tematiche poi confluite molti anni più tardi in titoli come Super-Cannes e Millennium People (tutti editi da Feltrinelli; non sappiamo se nel frattempo lo scrittore inglese abbia avuto occasione di visitare certi nostri terrificanti ghetti urbani molto meno chic e un filo più lumpen, magari costruiti all’insegna del politicamente corretto e con le migliori intenzioni, tipo gli Zen a Palermo o le Vele a Napoli). Comunque: a parecchi secoli di distanza dal Medioevo, quando insieme con le torri merlate e i ponti levatoi erano andati veramente per la maggiore, i muri stavano tornando a popolare anche il nostro immaginario. E il loro moltiplicarsi nel nostro paesaggio mentale ha finito per trasformarli, complice il revival post-moderno dell’antica minaccia saracena, in muri assai concreti, per nulla metaforici. Magari approntati in fretta e furia con reti di recinzione e lamiere ondulate e filo spinato, anziché col calcestruzzo usato nei pressi della Porta di Brandeburgo. E però destinati a durare, qui dove l’emergenza è perenne, come nel caso di quelli dei famosi Cpt o Centri di Permanenza Temporanea: utili non tanto a respingere ma piuttosto a contenere le moltitudini che, a bordo di natanti di ogni tipo, riescono in numero sempre maggiore a superare quel muro d’acqua che è il Canale di Sicilia (almeno quando non si trasforma in cimitero). Sia come sia: in generale, stante va da sé dall’11 settembre in poi l’ininterrotta emergenza terroristica che solo l’altro giorno ha nuovamente paralizzato gli aeroporti britannici, si percepisce qua e là una voglia di muri assai diffusa. Vedi quelli trasparenti del famigerato X-Ray Camp a Guantanamo. E però non solo allo scopo di escludere l’Altro da noi, che si tratti di recintare bande di pusher come a Padova o magari di tenere ben distinta dall’islamica Turchia la cristiana Europa, ma talvolta anche per una precisa volontà di auto-escludersi da un determinato contesto politico-geografico. In certi casi, con esiti catastrofici: vedi i conflitti che in anni recenti hanno ridisegnato i confini dell’ex Jugoslavia. In altri, un po’ meno: forse perché si tratta di questioni aperte da generazioni, e dopo un tot di morti ammazzati ci si rassegna a vivere come separati in casa. Chissà quanti baschi vedrebbero di buon occhio ancora oggi, in piena Terza guerra mondiale, un muro che li separi in via definitiva dalla Spagna. Per tacere di quello che, qualora eretto in mezzo al Belgio, soddisferebbe non poco innumerevoli fiamminghi e valloni. E gli scozzesi? Sono secoli che rimpiangono i bei tempi andati del Vallo di Adriano. Del resto, basta dare un’occhiata a certe nostre vicende. Che cosa avrebbero voluto in fin dei conti i famosi Serenissimi, arrestati in piazza San Marco sul loro panzer artigianale all’epoca in cui il parlamentino della Lega si riuniva a Mantova e anche secondo un futuro ex ministro della Repubblica Italiana col Tricolore ci si sarebbe dovuti pulire, eccetera? Tra le sacre sorgenti del Po e la fatale spianata di Pontida c’era chi parlava insistentemente di secessione: un bel muro a separare il Nord che lavora da Roma ladrona, con le camicie verdi come guardie di frontiera (e su Radio Padania se ne parla ancora). I muri, che da sempre vengono tirati su a scopo di difesa ma anche per fare chiarezza (da una parte ovviamente i buoni, dall’altra evidentemente i cattivi), sorgono com’è noto oltre che a Padova o in Palestina, anche nei territori informatici. Non a caso, una delle più celebri specie di virus si chiama «Trojan»: giusto per ricordarci che nessun muro è inviolabile. E se nel nostro piccolo ci fermiamo a fare due chiacchiere chessò, col nostro erborista di fiducia, corriamo il rischio di stupirci. Perché perfino lui, pur lontano da quell’India che ormai sforna talenti informatici a gogò, ha un figlio sedicenne che ancora il mese scorso giocava a fare l’hacker e adesso invece si guadagna la paghetta lavorando per le aziende di cui in precedenza aveva violato i siti, le quali hanno pensato bene di aggiudicarsene le prestazioni per migliorare i propri sistemi di difesa, o se volete i propri muri (vabbé, le proprie mura). Quanto a noi, saremmo già contenti se nei ritagli di tempo il ragazzo ci aiutasse a innalzare il muro in grado di resistere allo spamming che quotidianamente infetta le nostre caselle di posta elettronica. Anche il muro di Padova nasce come risposta a un palese disagio quotidiano. Speculare e contrario rispetto a quello che da alcuni decenni a questa parte, dal Sudafrica al Brasile passando naturalmente per gli Stati Uniti, vede certe comunità abbienti decidere di auto-segregarsi dal resto di un mondo che ai loro occhi non è altro che una giungla ostile dove imperversano i disperati delle favelas e i membri delle gang. Nel corso degli anni Novanta ne ha scritto diffusamente Mike Davis, professore di Architettura urbana presso il Southern California Institute of Architecture. Nel suo celebre Città di quarzo (manifestolibri) e nel successivo Geografie della paura (Feltrinelli), Davis raccontava già la Los Angeles di oggi, vera e propria città fortezza presidiata da unità di polizia, esercito, vigilantes privati, megalopoli militarizzata in preda all’ossessione collettiva per il controllo degli spazi urbani. Con i suoi sistemi di sicurezza sempre più sofisticati, Los Angeles era (è) la città di un futuro che giorno dopo giorno assomiglia sempre più al nostro presente di atomizzati cittadini globali accerchiati da nemici reali e immaginari. E lo è anche grazie ai muri, pattugliati notte e giorno da ronde armate e sorvegliati da telecamere, dietro cui hanno scelto di nascondersi gli abitanti di quartieri esclusivi come Brentwood o West Hollywood. Giuseppe Culicchia