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 2006  agosto 14 Lunedì calendario

Intervista di Giorgio Dell’Arti a Fabio Fazio nel 2000

Per Laura Gnocchi da parte di Giorgio Dell’Arti Verrà tra poco il Festival di Sanremo e i giornali si occuperanno di Fabio Fazio, Pavarotti, Teocoli, Inés Sastre e gli altri. La sarabanda è già cominciata: il dottor Contri, del Consiglio d’Amministrazione Rai, ha detto che scegliere la Sastre è stato un grave errore, perché come può la Rai ignorare per tre anni consecutivi le star italiane? Contri ha capito che per finire sui giornali bisogna mettersi sempre contro e i giornali, avendo capito che lui ha capito, dovrebbero ignorarlo. Invece lo riprendono sempre. Alle sue dichiarazioni indignate, uscite perciò con grande evidenza, son seguìti gli strilli delle Parietti, delle Ventura, delle Falchi. Tutto come sempre. Fabio Fazio ha taciuto. Ma dentro, lo sappiamo, frigge. Enrico Vaime dice che, quanto ad ansia, solo Maurizio Costanzo batte Fabio Fazio. Ma Costanzo ha questo sistema, ben noto: cerca di farsi amici tutti quelli che può. L’ultima volta (sempre per "Panorama") ci accolse con la domanda: "Ma io e te insieme nun famo gnente?". Fazio non si permetterebbe mai: è in effetti buonissimo, buono fino all’autolesionismo. Quando alla fine ci siamo salutati, mi ha raccontato che ben due volte i giornali gli hanno fatto lunghe interviste senza poi pubblicarle. Non aveva attaccato nessuno, anzi aveva elogiato tutti e questo ai giornali non va giù. Sul "Messaggero" smise di scrivere perché non riusciva a dir male dei programmi che non gli piacevano. E al contrario, se i giornali lo attaccano, se qualcuno lo critica sta male: dissero (falsamente) che la sua villa di Celle era abusiva e gli venne la pittiriasi. "Panorama", l’anno scorso, provò invano a fargli le pulci (figurarsi: è un santo) e ancora ne parla con indignazione. E perfino la battutina di uno spettatore al cinema, che, seduto nella fila di dietro, rispose all’amico che gli diceva "Vedi? C’è Fazio!" con un sonoro "E chi se ne frega", lo fece star male, prese a cantare una litania che la moglie Gioia deve conoscer bene, quella secondo cui bisogna sparire, bisogna nascondersi, bisogna fuggire da questo mondo brutto e televisivo. Vuole sempre sparire? "Oh, sì, sparire, non essere più guardato, è una tentazione molto forte". Che senso ha prendersela tanto per certe faccende? Le inchieste su di lei per vedere se paga le tasse fanno parte del gioco. "Dico che non è giusto, che non va bene, che non si fa, che è un metodo orrendo" Non è lo scotto inevitabile del successo? Lei ha poi quell’aria così per bene, è naturale che ai giornalisti vengano certe voglie. "La voglia di sparire non mi viene solo quando mi attaccano. Mi fa anche senso un certo modo di aver successo. C’è questa impressione, che se vai bene è perché hai le stesse caratteristiche di una scatoletta di carne. Cioè perché sei standardizzato, omogeneizzato, prevedibile e previsto. Tante volte ho il dubbio di avere successo perché sono perfettamente integrato al modello". Può essere. "Lei ricorderà che non volevo fare Sanremo". Sì, l’anno scorso disse così. Intanto: l’anno prossimo lo farà? "No, giuro, Sanremo è troppo rischioso, questa è l’ultima volta. Ma anche quest’anno sono stato parecchio incerto. E che potrò fare?, mi dicevo, ci vorrebbe qualcosa di nuovo, altrimenti sarà meglio starsene a casa". Quindi? "Quindi - pensavo - non ci vado. Poi è venuta quest’idea di Pavarotti. Ho pensato subito: beh, se c’è Pavarotti..." Che senso ha portare Pavarotti a Sanremo? "L’anno scorso abbiamo rotto la convenzione di Sanremo, abbiamo fatto un Sanremo sgrammaticato. Stavolta sono cinquant’anni e ho pensato: bisogna ricompattare tutto, creare una nuova grammatica. Quindi celebrare il cinquantenario non con i ricordi del passato, ma riposizionando il festival sul futuro. Cioè, il prossimo non sarà tanto il cinquantesimo festival del Novecento, quanto il primo festival del terzo millennio. E il posizionamento non può che essere internazionale. Ora chi rappresenta la nostra musica nel mondo?" Pavarotti. "Appunto. Lo andammo a trovare a Pesaro, quest’estate. Io dissi: "Sarebbe bello se cantasse, ma sarebbe straordinario se presentasse". Lui rispose: "Sono onoratissimo. Spero di essere all’altezza"". Bello. Portò anche sua moglie? "No, era un appuntamento di lavoro". Beh, che c’entra, Pavarotti mica si incontra tutti i giorni. "Gioia lo conosceva già, l’anno prima avevamo fatto le vacanze in America e a New York eravamo andati a trovarlo". Lei dev’essere severo sul lavoro. "Molto severo, molto rigoroso. Arrivo sempre qualche minuto prima. Non mi vanno i ritardi, non mi vanno le perdite di tempo. E’ anche l’educazione che ho ricevuto, piena d’affetto, ma attenta, rigida". Che facevano i suoi? "Gli statali. Mia madre ancora adesso si vergogna un po’ che io faccia televisione". Che mestiere doveva fare? "L’avvocato. M’iscrissi a Legge, anche se volevo fare Lettere". Era bravo a scuola? "Piuttosto bravo, sì. Studiavo". Perché studiava se voleva diventare presentatore? "Io non pensavo affatto a diventare presentatore. Sapevo solo questo: che a Savona non sarei rimasto. Avevo una vita normale, non mi mancava niente, sveglia la mattina, scuola, pranzo, riposino fino alle quattro, studio fino alle sette, happy days, cena, ripasso, sonno. D’estate le vacanze, tutti i giorni gli amici, dormire in camera col fratello..." Più piccolo? "Sì, di sei anni". Lei sarà stato un fratello maggiore rompiscatole, ordinatino. "Sì, esatto. Comandavo, rimproveravo, proprio così, d’altra parte mio fratello era alto, atletico, forte" Lei invece... "All’ultimo anno mi esonerarono da ginnastica... Insomma, ero certo che me ne sarei andato, a Savona cosa potevo ottenere? La stessa vita che già conoscevo, al massimo con qualcosa in più. Ma non pensavo alla televisione, per niente". Però faceva gli spettacolini. "Più che altro lavoravo alle radio di Savona, sa come sono le radio locali, si fa di tutto, si apre la porta a chi suona e poi si va in voce a fare le imitazioni o a mettere musica. Ma era un gioco, quando ho cominciato avevo solo sedici anni. Radio Vecchia Savona, Radio Golfo Ligure. No, sa cosa pensavo piuttosto? Che avrei fatto il giornalista. Per i mondiali dell’’82 la Nazionale venne ad allenarsi ad Alassio, con quest’idea di voler fare il giornalista andai con un amico mio che si chiama Paolo Foti a piatire un accredito. Otteniamo questo accredito, che però vale solo per la mattina. Senonché, mettono la conferenza stampa al pomeriggio. Disperazione! Sa che facemmo? Entrammo dentro la mattina e quando vennero chiusi i cancelli e fatti uscire i giornalisti, ci nascondemmo in una siepe e restammo dentro. Così per tre o quattro ore, come Tom Sawyer e Huck Finn, acquattati tra i cespugli. Così non perdemmo la conferenza stampa". Come finì in televisione? "Nell’’82 la Rai, per fronteggiare l’ascesa di Berlusconi, organizzò un concorso alla ricerca di nuovi talenti. Beh, ci andai. Non avevo nessuna speranza, ma volevo vedere gli studi. Mamma mi mise il maglione a rombi girocollo e mi stirò i calzoni alla perfezione. Papà mi accompagnò con la 124 azzurra. Il provino si svolgeva nella sede Rai di Genova, corso Europa. Entriamo e in anticamera c’è un sacco di gente disinvolta, abbronzata, ragazzi e ragazze sicuri di sè, forse addirittura mezzi professionisti, parlavano ad alta voce, insomma antipatici, mi facevano sentire un bambino di dodici anni..." Invece lei di anni ne aveva...? "Diciassette. Quando arriva il mio turno, mi siedo davanti a una scrivania e dall’altra parte c’erano Bruno Voglino e Guido Sacerdote. Voglino era molto materno, da allora lo chiamo mamma". Che gli raccontò? "Mi chiesero cosa sapevo fare. Io tirai fuori le voci, cioè le imitazioni. Imitavo gente a cui gli altri non pensavano, cioè Pertini, Paolo Rossi, Gilberto Govi. Voglino diceva "bravo, bravo", Sacerdote invece scuoteva il capo e faceva: "Ma se non gli somiglia per niente!". Lo faceva apposta". Li aveva colpiti. "Sì, soprattutto perché i personaggi imitati erano strani. In ogni caso, non ci pensai più perché avevo ottenuto quello che volevo, vedere la Rai. Tre mesi dopo mi fecero rifare un provino a Roma - a questo punto gli abbronzati della prima volta erano spariti - e alla fine mi mandarono un telegramma: "La informiamo che la Rai si riserva di utilizzarla per le sue prossime produzioni televisive". Sulle prime ero al settimo cielo. Poi, guardando meglio, pensai: perché "si riserva"? Se avessero voluto prendermi davvero, avrebbero scritto: "La Rai la utilizzerà". Dunque, mi hanno bocciato e me lo dicono in questo modo cortese. Presi il telefono e chiamai Voglino, per sapere che interpretazione bisognava dare a quel messaggio. Voglino si mise a ridere, tutto allegro mi disse: "Ma va là, ti abbiamo preso e ti chiameremo, sai quanti eravate all’inizio? Ottomila. E sai quanti siete adesso? Dieci". Chi erano questi dieci? "Bei nomi. Chiambretti, Iachetti, Cecchi Paone, Faletti, Tedeschi, Poggi. Mi chiamarono in autunno per fare l’ospite in "Pronto Raffaella"". La mamma come la vestì? "Abito grigio cangiante, capelli lunghi, cravatta di pelle blu. Il Secolo XIX, nella sua pagina di Savona, fece il titolo: Un savonese in tv! Poi cominciò la cosiddetta gavetta, che a me però pare quasi di non aver fatto. Il programma della Goggi, la radio... Mi chiamò pure Berlusconi..." Ah sì? "Sì. Mi offrì 150 milioni per andare a fare "Risatissima" e "Drive in". In Rai prendevo 80 mila lire a puntata, ma dissi di no. Pensai: qui sto come in una famiglia e poi, dopo il Drive in, che cosa mi faranno fare? Diciamo che la indovinai. Però, però...". Che cosa? "Quando arrivò Guglielmi venni praticamente licenziato. Avevo il contratto d’esclusiva, il che significa che, anche quando non lavori, ti madano a casa regolarmente un assegno. A un certo punto questo assegno non arrivò più. Andai a chiedere, e alla fine mi ritrovai davanti a Guglielmi, direttore di Raitre. Il quale, molto brutalmente, disse queste testuali parole: "Fazio, la rete non ha più intenzione di utilizzarla". Non rientravo nelle sue strategie, non corrispondevo alla tv che voleva fare. Non gliel’ho mai perdonata, lo considero con Freccero il più grande uomo di televisione in circolazione, ma non riesco a perdonargliela". Però è lui che poi l’ha recuperata e le ha fatto fare Quelli che il calcio. "Sì. In questo c’è naturalmente della grandezza, perché ha saputo ricredersi e recuperarmi. Io ero finito su Odeon tv a fare una trasmissione di intrattenimento sportivo che possiamo considerare un precursore di Quelli che il calcio. L’inventore del programma però è Marino Bartoletti che mi vide su Odeon e mi chiamò. Io m’ero fatto le ossa al talk-show alle feste di "Cuore" con Davide Riondino e Michele Serra". Lei è comunista? "Come si fa a essere comunisti oggi? Da giovane ero un socialista pertiniano, calamandreiano". Lei è diessino? "Diessino, sì". Lei è veltroniano? "Stimo moltissimo Veltroni". Sa che lei è un santino perfetto del veltronismo o dell’ulivismo o del buonismo o di come lo vogliamo chiamare? "Quale sarebbe il contrario del buonismo?" Il cattivismo. "Come si potrebbe essere cattivisti? Del resto, non ho mai fatto la collezione delle figure Panini e non capisco questa mania di voler mettere a tutti i costi uno contro l’altro D’Alema e Veltroni. Veltroni rappresenta la sinistra che abbiamo sempre sognato e mentre lo affermo dichiaro anche che D’Alema è uno statista clamoroso, importantissimo, bravissimo. Come si può non accorgersene?". Le piace la Rai di D’Alema e Veltroni? "Mi piace il servizio pubblico. Credo fermamente nel servizio pubblico. E guardi, non nel servizio pubblico ridimensionato, tipo una sola rete senza pubblicità, eccetera. No, credo nel servizio pubblico forte, tre reti, tanti soldi, programmi forti, i migliori giornalisti, conduttori, cantanti, sceneggiatori, autori. Una squadra che solo il servizio pubblico può mettere in piedi". E perché dovrebbe? "Per modellare il gusto del pubblico all’arte alla letteratura alla musica, col linguaggio della tv naturalmente e senza fare della noiosissima pedagogia. E poi per educare al rispetto, alla cultura, al tono basso di voce, alla tolleranza. Chi vuole che formi l’anima di un paese se non la televisione?". E’ un ragionamento in puro stile Bernabei. "Scusi, non è la televisione che ha dato unità linguistica al paese? E poi guardi, a proposito del buonismo e del cattivismo, io sto a Milano, lei sta a Roma, abbiamo quest’idea falsa che l’Italia sia quella delle grandi città. Ma l’Italia, invece, è piuttosto quella della provincia, quella della mia famiglia. Lavoro, severità di costumi, rigore morale, tranquillità, senso della propria tradizione e della propria posizione". Cioè l’Italietta o lo Strapaese. Però, allora, perché portare Pavarotti a Sanremo? "Perché, nello stesso tempo, non bisogna chiudersi in se stessi, bisogna crescere nel mondo, bisogna stare nel mondo. Altrimenti si può credere che il significato dell’esistenza si consumi tutto su un pianerottolo o al massimo in un condominio". Per questo manda Paolo Brosio all’Hermitage e Orietta Berti in America? "Sì, per questo. Ed è per questo che mi viene così spesso la tentazione di sparire, che ho più voglia di fare l’autore che il presentatore. Siamo in un periodo di bassa creatività, in cui si riciclano vecchie idee, in cui un vecchio format come "Scommettiamo che" fa ancora ascolto, un fatto grave per la televisione. Perciò è un momento magnifico, quello che ci vuole per tentare strade nuove, con i mezzi migliori che abbiamo, quelli che solo la tv pubblica può mettere in campo". Dica qualcosa sulla faccenda di Inés Sastre. "Ci voleva una faccia bella, forte, piena di personalità e nuova. Inés è addirittura laureata alla Sorbona. Avrei preso Francesca Neri, ma è andata da Celentano e ha smesso di essere nuova". Lei è un cattivone lo stesso, perché, nonostante la mamma, non ha preso la laurea. "Non è vero, mi sono laureato con 110 e senza lode. Però non in Legge, ma in Lettere". Tesi? "Non ci crederà. "Elementi letterari nei testi dei cantautori italiani"". Giorgio Dell’Arti