Aristide Malnati, La Stampa 11/8/2006, pagina 27, 11 agosto 2006
Hatshepsut La Stampa 11/8/2006 Colpo sensazionale di Zahi Hawass, l’egittologo più mediatico al mondo, recentemente inserito dalla rivista americana Time tra le 100 persone più influenti sulla terra: l’Indiana Jones egiziano, trafficando tra montagne di reperti ammassati nei magazzini del Museo Egizio del Cairo, ha rinvenuto e identificato con sicurezza la mummia di Hatshepsut, la più famosa regina d’Egitto, la più celebrata donna-faraone vissuta quasi 3500 anni fa
Hatshepsut La Stampa 11/8/2006 Colpo sensazionale di Zahi Hawass, l’egittologo più mediatico al mondo, recentemente inserito dalla rivista americana Time tra le 100 persone più influenti sulla terra: l’Indiana Jones egiziano, trafficando tra montagne di reperti ammassati nei magazzini del Museo Egizio del Cairo, ha rinvenuto e identificato con sicurezza la mummia di Hatshepsut, la più famosa regina d’Egitto, la più celebrata donna-faraone vissuta quasi 3500 anni fa. Due erano i corpi imbalsamati sospettati di una possibile identificazione con la sovrana immortale. Il primo era la mummia ritrovata nella cachette, cioè nel nascondiglio, di Deir el Bahari, vicino al tempio funerario edificato in onore della stessa Hatshepsut all’entrata della Valle dei re, dove sacerdoti vissuti 500 anni dopo occultarono corpi e corredi funebri dei maggiori faraoni al fine di evitare continue profanazioni. Qui, nel coacervo di salme mummificate, ne fu trovata una con a fianco un vaso canopo recante il nome della famosa regina: il sospetto era più che legittimo, anche se l’elemento non era di per sé dirimente. L’altro corpo «sospettato» era quello rinvenuto nel 1903 da Howard Carter (egittologo destinato 19 anni più tardi a entrare nella leggenda per il rinvenimento della sepoltura intatta di Tut Ankh Amon) nella tomba contrassegnata come «King Valley nr. 60»: giaceva a fianco di un sarcofago con all’interno la mummia di Sitra, nutrice della regina. Recenti analisi del Dna della mummia in cattive condizioni, i cui risultati sono stati comparati con la mappatura genetica ricavata dalle salme di sovrani e principi imparentati con Hatshepsut, non lasciano più dubbi: è proprio questa la mummia della divina sovrana e stava marcendo nelle segrete del più importante e caotico Museo Egizio al mondo. Ma chi fu Hatshepsut? E soprattutto quali eventi e quali monumenti sono legati al suo lungo regno (dal 1479 al 1457 a. C.) e alla sua fama? Benché, in quanto donna, il suo nome non compaia nelle liste ufficiali dei faraoni, Hatshepsut fu quasi sicuramente il primo re egizio appartenente al gentil sesso (forse prima di lei Ankhesenpepi regnò qualche anno nella VI Dinastia, attorno al 2250 a. C., ma non lasciò testimonianze). Era donna Hatshepsut, e fu donna molto bella, come suggeriscono la ritrattistica e la statuaria dell’epoca; fu di carattere tenace e di sfrenata ambizione, alimentata da un desiderio potente: ambiva a scalare la piramide del potere. Vi riuscì, sfruttando eredità dinastiche ma anche meriti politici. Intelligente, abile, insomma affascinante e dal carisma magnetico, Hatshepsut apparteneva alla XVIII Dinastia, che iniziò con i Tuthmosidi e che marcò lo scaturire del Nuovo Regno (1550 a. C. circa). Un periodo suggellato da una sorta d’età dell’oro e di progresso culturale, ma profondamente invelenito da reiterate trame oscure e intrighi di palazzo, a cui la regina non si sottrasse e di cui fu artefice e, in un momento successivo, vittima. Deceduto il consorte Tuthmosi II e con il figliastro, legittimo successore, Tuthmosi III ancora bambino, la principessa si impadronì dei vertici politici: ne assaporò il gusto decidendo le sorti dell’Egitto in un periodo di settennale coreggenza con il piccolo Tuthmosi III, che formalmente la affiancava nell’esercizio del comando. In seguito, limitò l’azione del figliastro e di fatto lo estromesse dalla sovranità, e a partire dal 1479 a. C. impugnò, lei sola, lo scettro di faraone d’Egitto. Lo mantenne per 22 anni. Fu un periodo di sostanziale pace, in cui le spedizioni militari vennero ridotte al minimo; un lungo regno di floridezza economica, in cui parecchie categorie sociali (soprattutto i commercianti) si arricchirono, e in cui i sudditi beneficiarono di un generale clima liberale, tanto che i comportamenti arrivarono alla dissolutezza, non risparmiando i più alti ranghi del bel mondo di Tebe. Sappiamo che venivano organizzate avventurose spedizioni verso il cuore dell’Africa nera, verso la favolosa e mitica Terra di Punt, alla ricerca di oro, avorio, minerali preziosi, ebano e legni pregiati, destinati a ornare i saloni della corte egizia e a esaltare la femminilità di donne, che potevano permettersi gioielli di simile fattura. Ci guidano alla scoperta della «dolce vita» nell’Egitto di Hatshepsut numerose raffigurazioni parietali dipinte sui monumenti e nelle sepolture, testimonianza eloquente di spaccati di vita quotidiana: vediamo battute di caccia, pescatori lungo il Nilo, giochi di società, kermesse canore a corte, festini licenziosi, in cui scorrevano fiumi di vino e birra e che erano allietati dalla presenza di giovani fanciulle in fiore, provocanti nei loro abiti succinti; le ragazze, ma anche le matrone più attempate (e persino rappresentanti del sesso forte, in questo per nulla effeminati), non lesinavano i profumi e un trucco anche pesante, che prevedeva occhi bistrati, fard e eye-liner. E non mancarono nemmeno i veleni graffianti delle malelingue: una mano ignota ha realizzato un graffito sul tempio terrazzato della regina, una sorta di gossip dei tempi antichi; il restauro dell’intero complesso, recentemente completato da una missione polacca, permette di apprezzare in tutta la sua immediatezza l’opera di un writer alla corte dei faraoni: Hatshepsut è colta in un audace accoppiamento in piedi con un ignoto partner. Non ci sono dubbi. Lui sarebbe proprio quel Senenmut, architetto di umili natali, a cui la sovrana aveva affidato l’educazione della giovane figlia. Quello che prima era un sospetto, ora è confermato dal graffito: tra di loro c’era una relazione, che si sussurrava e si cercava di occultare. Il tempo scorreva inesorabile e il regno e la vita della regina volgevano al termine, con Tuthmosi III oramai adulto e dunque perfettamente in grado di subentrarle. Ma morì di morte naturale o fu uccisa, magari avvelenata in seguito a congiure di corte? « quanto potremmo sapere molto presto - afferma l’egittologa Stefania Sofra, massima studiosa della biografia della prima donna-faraone -. Zahi Hawass, nel corso di un recente convegno a Latina, ha rivelato che intende eseguire una Tac sulla mummia. Un intervento per nulla invasivo, che il celebre egittologo ha già compiuto sul corpo imbalsamato di Tut Ankh Amon. E anche in questo caso dovrebbero emergere verità storicamente rilevanti; e forse si potrebbero ricostruire le fattezze del reale volto di Hatshepsut, così come si è fatto per Tut». «Insomma è il momento di questa femme fatale, di questo simbolo immortale di bellezza e intelligenza femminili», aggiunge Stefania Sofra: «Al Metropolitan Museum di New York, consapevoli del suo charme esplosivo e perenne, le hanno dedicato un apposito spazio espositivo permanente. Non era mai capitato per nessuno». Aristide Malnati