Varie, 10 agosto 2006
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LA MANTIA Filippo Palermo 26 settembre 1960. Chef. Del ristorante Trattoria di Roma • «[...] è oggi tra gli chef di punta diquella nouvelle vague siciliana, che senza rinnegare la grande tradizione gastronomica dell’isola ha saputo rivisitarla all’insegna della leggerezza
LA MANTIA Filippo Palermo 26 settembre 1960. Chef. Del ristorante Trattoria di Roma • «[...] è oggi tra gli chef di punta diquella nouvelle vague siciliana, che senza rinnegare la grande tradizione gastronomica dell’isola ha saputo rivisitarla all’insegna della leggerezza.Così nella sua Trattoria, ormai un riferimento per il belmondo della capitale, si gusta ad esempio la classica caponata ma senz’aglio né cipolla, gliagrumi vengono utilizzati anche per condire la pasta, il cous cous trionfa in una seriedi abbinamenti sia di terra chedi mare. E il mare ritorna nei grandi piatti di crudo dove puoi emozionarti con una ricciola o con un gambero ”nature”. E alleggeriti sono anchegli ”sfizi” tipici della Sicilia, come i cazzilli, le panelle o gli arancini, proposti in dimensioni mignon che ti fai fuori in unboccone. E c’è chi fa la coda,quando è stagione, solo per il suo sorbetto di cachi» (Rocco Moliterni, ”La Stampa” 27/5/2007) • «Ma chi è veramente Maqe-da? Filippo La Mantia sposta i bicchieri che abbondano su uno dei tavoli del suo ristorante romano, al Pantheon, piazza il più sfrontato dei sorrisi ”marpioni” dicui è capace e spiega, con la stessa tecnica affabulatrice con cui è solito magnificare lapasta con le sarde o le arancine o la caponata palermitana: ”Maqueda è Palermo. Tutto il bene e tutto il male della città irripetibile e irredimibile”. Ecco, allora il romanzo scritto da Salvo Sottile (Maqeda, Baldini e Castoldi Dalai) è la tua storia, che poi è molto intrecciata con quella della città. O no? Filippo lotta un po’ col suo amor proprio, alla fine, poi, smorza: ”Ma quando mai! Ci sono un sacco di minchiate che abbiamo messo insieme io e Salvo, piccole storie che ci capitavano quando lui faceva il giornalista a Palermo e io il fotografo”. E allora vediamolo Maqeda, seguiamolo giovane esploratore di Palermo ”ex felicissima”, teatro della quotidiana farsa della vita spericolata, dei mafiosi che non sono mai né buoni n é cattivi, della gioventù affamata di successo ”e come viene viene”, della giustiziache può essere profondamente ingiusta ma è sempre speranza di catarsi. In questo palcoscenico limaccioso Maqeda/La Mantia ha recitato molte parti: ”Ora lo posso dire. Credo di non avermai vissuto una sola vita. Ne ho vissute tante e tutte insieme. Intense e grame, spericolate oppure sospese, qualcuna amara qualcun’altra agrodolce, forse nessuna davvero felice”. Si dovrebbe pronunciare Maqeda, ma si scrive Maqueda ed è il nome di un viceréspagnolo, tanto valoroso da aver cambiato il toponimo alla principale strada del Cassaro, un tempo via Toledo. Lui, Filippo, a sua volta diventa Maqeda per via dell’ubicazione del pal azzo di proprietà dello zio ”un po’ boss, un po’ imprenditore un po’ benefattore: sostanzialmente un bravu cristianu che si lasciava utilizziare”. Ma accanto al Filippo ”sospetto” c’è il ragazzo buono, il ”pezzo di pane” che sacrifica i migliori anni della sua gioventù per strappare all’eroina Emma, figlia ”sfortunata” di Matilde fotografa del giornale antimafia della città. ”Emma l’ho amata più della mia vita. Facevo a cazzotti con gli spacciatori per proteggerla. Tante volte mi prendeva la stanchezza, ma poi vinceva la voglia di non lasciarla in quell’inferno ed andavo a cercarle l’eroina.Tre anni è durata la mia guerra. Oggi sono contento di avere ancora l’affetto di Emmae Matilde”. La ragazza esce dal tunnel,vede la vita e nello stesso momento cambia il rapportod’amore. Fine della storia. Emma parte, Filippo si inventa fotografo. Che non è mestiere semplice per uno che ha uno zio come il suo, attorniato da tanti ”don Tano” convinti che giornalisti e fotografi sono solo ”sbirri”. E così Filippo fotografa il figlio di don Tano con le manette e deve prendersi lo sputo del mafioso che vive quello scatto come un ”tradimento”. Oggi Maqeda ricorda: ”Ho fotografato Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie massacrati dai killer mafiosi: la polizia arrivò e mi voleva sequestrare la pellicola. Ho preso tante di quelle botte che metà bastavano, ma li ho fregati: ho sostituito il rullino mentre loro mi picchiavano manon se ne sono accorti e allora hanno distrutto il negativo sbagliato. Quello buono lo hanno visto tutti, sul giornale”.La foto indimenticabile? ”La testa di un contrabbandiere perfettamente sistemata sul sedile di un’auto lascia-ta in seconda fila, alla stazione centrale di Palermo. Il vigile multò l’auto senza accorgersi d’altro. Poi tornò, scostò il giornale che nascondeva il ”cimelio’ e svenne. Portai quello scatto a Matilde mentre aveva ospite in studio Koudelka, un mito della fotografia. Il maestro volle quel negativo perchè, diceva, ”sarà la foto del secolo”. Poi arrivò il carcere. Già, perché da uno zio mafioso non si esce indenni. ”Fui accusato - ricorda - di aver partecipato all’uccisione del vicequestore Cassarà. Mi presero a casa, di notte. Non riuscivo a capire, credevo si trattasse di una qualche irregolarità legata ai conti di mio zio con cui avevo lavorato. Quando lessi l’ordine di cattura rimasi di pietra. Non riuscivo a capire come potesse accadere di dover essere io fotografato: ero passato dall’altra parte delloschermo, come in un film. Sette mesi in cella, poi proscioglimento completo firmato Gio-vanni Falcone”. Adesso c’è il Maqeda nuovo che ha ”dismesso il gessato similboss nello stesso momento in cui decisi di abbandonare Palermo”. Oggi Maqeda non c’è più, rimpiazzato da Filippo che è chef di successo, che impianta ”Resort” in mezzo mondo, l’ultimo in Indocina inaugurato con un menù sicilianissimo, che prepara un ”Gala” all’ambasciata Usa e finisce sui giornali. Prima dei saluti Maqeda chiede spazio per ”una cosa a cui tengo”. Avanti. ”Lo scrivi che mi sono inventato la ”Caponata for life’? [...] Per ogni piatto di caponata che viene chiesto in questo ristorante,un euro va ai bambini africani ammalati di Aids [...]”» (Francesco La Licata, ”La Stampa” 27/5/2007).