La Repubblica 08/08/2006, pag.39 Antonio Gnoli, 8 agosto 2006
Manlio Cancogni. Quel che resta dei sogni e dei miei lontani ricordi. La Repubblica 8 agosto 2006. Marina di Pietrasanta
Manlio Cancogni. Quel che resta dei sogni e dei miei lontani ricordi. La Repubblica 8 agosto 2006. Marina di Pietrasanta. A novant´anni Manlio Cancogni si sente un uomo finito. Apparentemente tutto contraddice questa iniqua sentenza. Una memoria invidiabile, un fisico ancora integro, rallentato, come è ovvio, dall´età e dagli acciacchi. Ma è nella testa che il cortocircuito è avvenuto. Ed è come se la luce improvvisamente si sia spenta. Dalla finestra del primo piano del villino in cui abita - un edificio che ha conservato nella sua modestia la dignità di un luogo marino d´altri tempi - Cancogni mi fa cenno con la mano di salire. la moglie ad attendermi sulle scale e a condurmi da lui. Una cagna bassotta abbaia e poi sparisce in direzione di certe nuove case che stanno costruendo proprio accanto al villino. «Pensi», sussurra mite la signora, indicandomi le impalcature, «da questo spazio ridotto ricaveranno una decina di mini appartamenti, neppure durante i tempi peggiori si era visto qualcosa di così oltraggioso». Cancogni ci guarda e lentamente si avvicina. alto, un po´ ingrassato rispetto al ricordo, vagamente grifagno, che ho di lui. Penso sia stato una sorta di scrittore anfibio che ha diviso la propria attività fra giornalismo e letteratura. Grandi reportage e inchieste importanti (celebre quella che fece negli anni Cinquanta per L´Espresso su "Roma capitale corrotta, nazione infetta") e diversi romanzi e racconti (che l´editore Fazi sta ripubblicando) alcuni dei quali particolarmente belli. Mi vengono in mente La carriera di Pimlico, Allegri, gioventù, con cui vinse lo Strega nel 1973, L´amore lungo, Quella strana felicità (premio Viareggio, 1985), Lettere a Manhattan. Cancogni si va a sedere su una poltrona, accanto alla finestra da cui si intravede una striscia di mare. la Versilia con i suoi bagni in fila, le sue spiagge ordinate, la sua memoria, sempre più distratta. Fiumetto, dove egli abita, non fa eccezione. «La rincorsa al brutto qui è cominciata da tanto tempo», dice con l´aria di chi non scopre nessuna verità clamorosa. «Un tempo me la sarei presa, ne avrei sofferto. Ma oggi? Oggi che mi sento sospeso dentro un vuoto che non riserva sorprese, oggi i miei pensieri non hanno più vita, io mi sento una sola cosa con il nulla». Questo nulla ha un nome ed è la depressione che da qualche tempo ha afferrato Cancogni e non sembra volerlo mollare. Quando parla è come se la parola prendesse una direzione a lui indifferente. Ricorda, senza sforzo e senza emozione. Gli chiedo di quel nome che i genitori gli hanno dato: Manlio. «Lo detesto, così breve e così impronunziabile», dice, e quando lo dice è come se le labbra suggerissero qualcosa di neutro, di remoto, di secco. Lei è nato qui in Versilia? «I miei genitori erano versiliesi. Sono nato a Bologna nel 1916, dal 17 al 40 sono vissuto a Roma. Poi mi trasferii a Sarzana, dopo aver vinto il concorso di professore di storia e filosofia per insegnare in un liceo». Mi risulta che sia laureato in legge. « vero, ma allora il concorso era aperto anche ai laureati in lettere e legge». Perché non ha scelto la professione di avvocato? «Mio padre era avvocato. Io non avevo nessuna attitudine. E inoltre mi piaceva la filosofia, mi piaceva insegnarla. C´era il fascismo e parlare di filosofia mi sembrava un modo per sentirsi più liberi». Parteggiava per Croce o Gentile? «Per nessuno dei due. Mi piaceva Bergson». Fuori dagli idealismi? «Fuori. E poi era una scelta molto letteraria. In fondo, mi interessava più la letteratura che la storia e la filosofia». Giornalista e letterato, così la definiscono. «Non la ritengo un´offesa. Ho cominciato con la letteratura e non pensavo assolutamente al giornalismo. Diciamo che lo sono diventato per ragioni pratiche, per soldi. Nel 1945 iniziai a lavorare alla Nazione del popolo di Firenze. Il direttore era Carlo Levi. Poi sono venuti L´Europeo, L´Espresso e altre testate». Cosa comporta che un letterato si trasformi in un giornalista? «Può diventare fonte di frustrazioni, o magari può essere una scelta vissuta come una retrocessione. Per me ha significato la scoperta dei fatti. Scrivevo per delle riviste letterarie racconti che avevano una diffusione ridottissima. La misura del giornalismo è diversa. Coinvolge la dannata popolarità». Solo quella? «Non solo. E poi non era per me la cosa più importante. Un letterato fa il giornalista quando non sa fare una sola cosa. Altrimenti è una maniera di uscire da se stessi. Si diventa meno egocentrici». Ne è sicuro? «Oddio, a volte ho l´impressione contraria. Ma ho sempre visto il letterato come una figura narcisistica: tutto memoria interiore, anima tenera e caffè nei quali mettersi in posa. Il giornalismo è stato un modo per dimenticare me stesso, le mie malinconie». Insomma un giornalista non è un letterato fallito come qualcuno ha detto? «Non saprei cosa risponderle. Ho fatto volentieri entrambe le cose». E il giornalismo di oggi come le appare? «Non lo seguo». Quando ha deciso di chiudere con i fatti? «L´ultima mia collaborazione ai giornali risale agli anni Novanta. Allora scrivevo per L´Osservatore Romano». Un modo di chiudere la carriera abbastanza singolare. «Mi fu chiesto di collaborarvi e accettai volentieri». Si parlò di lei come di un laico che aveva trovato la fede. « vero. Fu un processo molto lungo, cominciato negli anni Settanta. Ma la svolta netta avvenne nel 1993. Fu l´anno in cui è morta mia figlia. Avvenne allora il passaggio alla pratica religiosa». Cosa è stato per lei il dolore? «Un grande interrogativo. Chiude alcune porte e ne apre di nuove. In sostanza si esce dalla superficie dei fatti». Il dolore è sufficiente a giustificare la fede? «Sono due cose completamente separate. Il dolore è quanto di più fragilmente umano possediamo. La fede è un dono che rafforza. Ma non sappiamo come e perché ci arriva». A lei, che fino a quel momento aveva usato la ragione come discrimine di tutte le cose, non la spaventava l´idea di affidarsi a qualcosa o a qualcuno di totalmente altro? «Perché avrebbe dovuto spaventarmi?». Perché improvvisamente si abbandona tutto quello che fino a quel momento si è stati. «Non ho abbandonato le cose, le ho viste sotto una luce diversa. Ho cambiato modo di scrivere. Ma non tanto nella forma, quanto nella sostanza». Negli ultimi anni lei ha molto scritto su Manhattan. Perché? «Vi ho soggiornato a lungo dal 1993 al 2000. Vivevo con mia moglie in un piccolo appartamento vicino a Madison Square, sulla Terza Avenue, all´angolo con la ventiquattresima strada». Evviva l´esattezza. Cosa la colpiva della città? «Nulla di particolare. Facevo la stessa vita che oggi faccio qui». Cioè? «Non andavo al cinema, non andavo al teatro, non andavo alle mostre». Poteva essere in qualsiasi altra parte del mondo, sarebbe stato lo stesso? «Sì. Il mio desiderio era tornare a Fiumetto». E cosa glielo impediva? «Era morta mia figlia e volevamo stare vicino a nostro nipote, almeno finché non fosse cresciuto abbastanza. Le sembrerà strano. Manhattan è la città che conosco meglio. Ma non ho mai partecipato alla sua vita. Diverso, se vuole, dagli anni che trascorsi a Parigi». Quali erano? «Il periodo dal 1952 al ’54 e dal 1959 al ’63». In pieno esistenzialismo. «C´erano i cabaret che frequentavo assiduamente e con loro arrivò la scoperta di alcuni grandi come Jonesco e Beckett. Meno l´esistenzialismo che era molto condizionato dagli atteggiamenti di Sartre. Una prima donna, ma di una bruttezza senza speranza». Lo ha conosciuto? «Lo incontrai una volta. Mi parve un sofista. Più che del pensatore aveva le doti dello scrittore». A proposito di scrittori lei ha raccontato in un romanzo, Azorin e Mirò, la sua amicizia con Carlo Cassola. «Diventammo amici a vent´anni, l´età in cui noi scoprimmo il mondo». E fu una sorpresa? «Fu come uscire da una prolungata adolescenza». Cos´è per lei l´amicizia? « qualcosa di irrazionale. Condividi alcune cose e ne taci altre». Un´amicizia deve ignorare quei motivi che la potrebbero mettere in crisi? «Sì, ed è questo il suo punto debole». Come visse l´attacco che il Gruppo 63 portò contro Cassola e Bassani? «La definizione di "Liale" della letteratura mi parve in un primo momento offensiva. In realtà è solo una battuta ingiustamente passata alla storia. Era facile attaccarli». E cosa prova di fronte al fatto che il suo amico Cassola sia stato dimenticato? «Non ho più la necessaria dimestichezza con le passioni. Non provo nulla. Sarebbe come chiedermi che cosa provo per la sparizione dell´unicorno. Crediamo che dimenticare sia una forma di ingiustizia. A volte è il modo che abbiamo di proteggere quelli cui abbiamo voluto bene». Lasciateci in pace? «Più o meno. Meno retorica nell´elogio e meno attacchi gratuiti». Un altro personaggio, spesso al centro di polemiche, è l´allenatore di calcio Zdenek Zeman. Glielo cito perché anche a lui ha dedicato un libro: il Mister. «Di lui mi affascina la parsimonia nell´uso delle parole e la ricchezza spettacolare del suo calcio. Tutto il contrario di quello che in genere accade nel campionato italiano: dove si parla molto e si gioca poco». Come si deve scrivere di calcio? «Non spetta a me dare suggerimenti. Un tempo le parole servivano a farti vedere la partita. L´avvento della televisione ha ucciso la cronaca. Oggi si filosofeggia di calcio». Le piaceva lo stile di Gianni Brera? «Non ero un suo fan. Mi piaceva lui più che il suo scrivere». Che cosa l´attraeva? «Il lato rurale. Quel lasciarsi attrarre, come un meteorite, dal cibo, dal vino, dalla terra, mi affascinava. stato un frutto tardivo della fantasia di Rabelais». Lei fu anche amico di Montale. «L´ho conosciuto e frequentato bene negli anni fiorentini tra il 1943 e il ’47. Era un uomo introverso ma con un fortissimo senso dell´ironia. E sebbene fosse spesso silenzioso quando parlava si dimostrava un narratore bravissimo. Il meglio che le Giubbe Rosse abbiano prodotto». Cosa pensa di quel celebre gruppo? «Mi sembra esagerato il ruolo che gli si è attribuito. Occupavano un angolino di un caffè e spesso erano più tollerati che amati dal proprietario». Si può amare un letterato? «Il letterato italiano è una figura troppo esangue. Non scopre la realtà, la impreziosisce». il destino di molti scrittori italiani? « un fenomeno che accade più spesso da noi che altrove. Avendo a lungo vissuto in America, mi sono reso conto che lì non esiste una società letteraria. Gli scrittori sono delle individualità, ciascuna vive per conto proprio. Spesso separate da distanze considerevoli. Eppure hanno prodotto la narrativa più interessante e creativa del XX secolo». Oggi lei cosa legge? «Leggo pochissimo». Come trascorre la sua giornata? «Le mie sono giornate decisamente vuote. L´unica consolazione è che il tempo da vecchi passa più in fretta». Si sarebbe detto il contrario. « la percezione elastica del tempo che si contrae o si allunga. La mia vita vuota, senza interessi fa sì che il tempo voli». Mi prende in giro? «Dico sul serio. Non faccio più nulla volentieri. Non mangio volentieri, non mi muovo volentieri, non penso volentieri. Non esco quasi più di casa. Ho ridotto la mia vitalità al minimo. A questa situazione hanno dato il nome di depressione». Ne ha sofferto anche in passato? «Mai. Essa è giunta improvvisa nel 2003. Ero stato ricoverato in ospedale per un angina e quando ne sono uscito a poco a poco è montata questa assurda malinconia». Si può curare. «Così si dice, ma la depressione dei vecchi evidentemente la curano male. Ormai prendo farmaci per tutto: per il cuore, per la prostata, per la cervicale, per la depressione. Siamo sicuri che la parola farmaco sia una parola amica?» Le capita di pensare alla morte? «Ci penso spesso. Ed è come immaginare che quel vuoto nel quale mi sembra di stare possa finire, possa essere riempito con un´altra vita». Da credente come immagina l´altra vita? «Nel modo più semplice: un mondo di beatitudine». Cos´è oggi Dio per lei? «Spero non sia un Dio depresso. No, a parte gli scherzi, il Dio a cui penso è pura trascendenza. Niente facili identificazioni con la natura. Preferisco San Tommaso a Spinoza». Le dà conforto pensare a Dio. «Nei miei giorni morti è la sola verità alla quale vorrei richiamarmi». Usa il condizionale. «Le verità non danno conforto, ma solo certezza». così potente il vuoto nel quale si trova? «Non lascia lo spazio per fare nulla. Si vive con la benzina in riserva e aspetti che finisca. Sa qual è il momento della giornata che preferisco?». Non riesco a immaginarlo. «Quando vado a letto. La sola cosa che riesco a fare bene è dormire. Dormire e sognare». Che cosa sogna? «Di tutto. Ma c´è un sogno che ricorre spesso. Mi trovo solo in una città e sto andando nella casa dei miei genitori. Credo di sapere dove sia, ma non riesco a trovarla. Non riesco mai a raggiungerla e ad entrarvi». Freud parlerebbe di un conflitto irrisolto. «E se il conflitto non ci fosse, e ci fosse solo il desiderio di ricongiungersi con i propri cari? Dia retta a me: la psicoanalisi è una truffa». Antonio Gnoli