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 2006  agosto 08 Martedì calendario

MAURI Glauco Pesaro 1 ottobre 1930. Attore. Prima fama come Smerdiakov ne I fratelli Karamazov (1954), ha lavorato in teatro con Giorgio Albertazzi, Anna Proclemer, Mario Scaccia

MAURI Glauco Pesaro 1 ottobre 1930. Attore. Prima fama come Smerdiakov ne I fratelli Karamazov (1954), ha lavorato in teatro con Giorgio Albertazzi, Anna Proclemer, Mario Scaccia. In tv è stato Christian ne I buddenbrook (1971), Verchvenskij ne I demoni (1972) ecc. • «[…] grande ed etico maestro della scena [...]» (Rodolfo di Giammarco, “la Repubblica” 3/12/2007) • «“Glauco, per fortuna sei sempre allegro, mi dice tanta gente, perché do l’idea di non avere preoccupazioni, ho un sorriso piuttosto naturale, e d’abitudine una buona parola per chiunque. Ed è vero che non ho mai conosciuto a fondo l’infelicità, che mi sono sempre ribellato a un primo cenno di depressione. Ma le cose difficili, quelle non me le sono mai fatte mancare, e neanche i dispiaceri. Che poi fortificano, i dispiaceri. Una mia specialità consiste nell’arrovellarmi dentro. Ho finito per sapere benissimo come fare i conti con un dolore freddo che non ti fa piangere. Quando è morta mia madre sono stato male dentro di me per tre mesi, e poi, solo dopo, m’è venuto fuori un misto infinito di tristezza, malinconia, tormento”. A Glauco Mauri la mamma è mancata nel 1967. Ha svolto un ruolo di figura essenziale e accentratrice degli affetti della sua vita, essendo morto il padre quando lui aveva soltanto nove mesi. “Ho avuto due fratelli maggiori, uno più grande di me di dieci anni, e un altro che ora non c’è più. Mia madre li aveva soprannominati il ‘bello’ e l‘’intelligente’, e a me m’aveva ribattezzato il ‘buono’”. La bontà, sinonimo anche di umanità, delicatezza e coscienziosa disposizione per gli altri e per il lavoro, in effetti sarebbe poi stata sempre il tratto distintivo dell’animo di Mauri [...] Ha dato sempre così importanza al mettere le radici su una scena, che fino a [...] anni fa ha esclusivamente abitato in alberghi. “A Roma, dove mi trattenevo di più, col passare del tempo poggiavo stabilmente armi e bagagli in un hotel tra largo Chigi e piazza San Silvestro, poi mi stabilii in un albergo dalle parti del teatro Quirino, e in ultimo scelsi come domicilio fisso l’Hotel Imperiale in Via Veneto. Solo nel 2000 mi sono trasferito in un’abitazione mia, in un ex convento del quartiere Monti dove al piano alto c’è la famiglia di Roberto Sturno con cui da quasi trent’anni faccio compagnia assieme, e i figli suoi e di Stefania Micheli (anche lei attrice, ndr) [...]” Prima di circondarsi di una famiglia d’arte, Mauri ha avuto gelosamente con sé solo casse di libri. “E dato che ho cominciato a girare dai primi anni Cinquanta, accumulavo così tanto che alla fine mi sono anche trovato tre edizioni del Decameron, due volumi di Sotto il vulcano, e via dicendo. Da quando sono in questa casa mi sono riappropriato di opere che leggevo da ragazzo. E ho cominciato a rileggere Thonio Kröger di Mann, La rivoluzione teatrale di Mejerchol’d e altri libri che m’hanno appassionato anche per le sottolineature e le orecchiette che facevo” [...] Prima della cultura, spiega che per lui ragazzo ci furono problemi di sopravvivenza durante la guerra, con disagi che segnarono la formazione non meno della pagina stampata. “A Pesaro lo sfollamento fu obbligatorio, e ci sistemammo in ricoveri e tunnel: con mamma s’andava a cercare un pugnetto di riso nei negozi con le saracinesche rotte, o ci s’arrangiava col pane inzuppato nel vino. Poi ci rifugiammo in una casetta in un lotto popolare. Avevo per amici falegnami e scaricatori di porto. Mia madre, che faceva l’infermiera, curava Riccardo Zandonai e mi portava con lei, e a dodici anni io gli feci sentire un’Ave Maria composta da me. Il mio primo sentimento è stato per la musica. Riuscivo anche ad andare a vedere la lirica, dal loggione, e prendevo lezioni gratuite di solfeggio. Più tardi mi sono convinto che la musica aiuta molto a recitare”. Cita quella di Beethoven, di Mozart, di Bach, e anche quella da camera di Schubert. “Dopo aver fatto da ragazzo il suggeritore, dopo aver debuttato a quindici anni, nel gennaio 1946, come protagonista de La notte del vagabondo nella filodrammatica del Teatrino di San Nicolò nella parrocchia di Pesaro, e aver capito che in scena perdevo pudori e complessi, ed essere venuto a Roma nel 1949 per frequentare l’Accademia ai tempi di Costa, Tofano e della Capodaglio, il direttore Silvio d’Amico mi mise di fronte a un aut aut che m’avrebbe cambiato la vita. S’erano accorti che avevo una buona voce da tenore, e d’Amico mi disse di scegliere tra una borsa di studio per la musica e un futuro da teatrante. Non ci dormii una notte, mi sedetti sulla scalinata di San Pietro, arrivarono le guardie e mi chiesero se stavo male, e il giorno dopo decisi: fare l’attore”. Il seguito fu un intreccio di occasioni. “Facevo Smerdjakov nei Fratelli Karamazov, e ottenni un appuntamento con la Brignone. Andai all’Excelsior di Napoli, e a lei e a Santuccio dissi Il racconto delle lucertole di Pirandello. M’accolsero con un ‘Sarai con noi’, aggiungendo preoccupati: ‘Ma hai soldi?’ e mi dettero il corrispettivo di quaranta-cinquanta euro con cui mi feci subito una spaghettata”. L’ascesa fu veloce. Ricevette fiducia anche da Memo Benassi, Enrico Maria Salerno, Renzo Ricci, Anna Proclemer (“Capì tante cose della mia vita”), Franco Enriquez (“Mi dette molto coraggio”), Aldo Trionfo, Giorgio Strehler. E poi ci fu per lui lo straordinario sodalizio con la Compagnia dei Quattro (“Lì io e Valeria Moriconi eravamo due veri pazzi. E ogni settimana alternavamo un repertorio di quattro testi”). Poi nel 1981 nacque la più solida e la più duratura delle unioni artistiche, quella con Roberto Sturno. “Attraverso un legame di stima e d’intesa che via via è stato tra maestro e ragazzo, padre e figlio, fratello e fratello, e ora a dirla tutta è lui mio padre. Non siamo affatto uguali, sia chiaro. Discutiamo sempre, anche pesantemente. All’origine io sono tenero per temperamento, e lui nasce chiuso e razionale, ma adesso è maturato un punto d’incontro [...] La cosa che mi fa più incazzare è la cattiveria calcolata, la volgarità mista a mediocrità. Peggio ancora se la cattiveria è messa in atto da chi calpesta un debole, commettendo un peccato etico e sociale. E per volgarità intendo quella dei sentimenti, e di una certa sottocultura o incultura, qualcosa che ha a che fare col Grande fratello, con la spazzatura fondata su cose becere e insultanti. M’indigno anche per la banalità: meglio una cosa fatta o detta male, anziché una cosa di livello irrimediabilmente banale. Mi disturba anche l’arte per l’arte: io ritengo necessaria un’arte per la vita”. E se gli si chiede com’è che mette in pratica questo principio, ribadisce un concetto d’impegno. “Io racconto favole tutte le sere, e cerco d’aiutare gli altri a essere più ricchi. Dire o sentirsi dire ‘bravo’ non è un complimento, per un attore. Dire o sentirsi dire invece ‘Mi ha ricordato questo fatto, questo valore’ oppure ‘Lei stasera mi ha smosso quella corda lì’, ecco, qui c’è un motivo di gioia” [...] L’emozione più grande? “Quella avuta per mia madre quando venne per la prima volta a Roma, a vedermi all’Eliseo nei Fratelli Karamazov, e in sala volò un ‘bravo’”. L’emozione più brutta? “Quando da ragazzo vidi a Pesaro un giovane partigiano portato via dai tedeschi per essere fucilato”. L’emozione più indelebile come spettatore? “Quando ho visto La classe morta di Kantor”. Un’emozione spirituale? “Le cito Bernanos. Per chi crede nessuna spiegazione è necessaria. Per chi non crede nessuna spiegazione è possibile” [...] “Mia madre mi diceva che avevo mangiato le gambe a Santa Rita, la testa a San Giuseppe, e un braccio a Sant’Antonio, e che perciò dovevo proprio essere buono”» (“la Repubblica” 1/8/2010).