Varie, 8 agosto 2006
MAGNI
MAGNI Luigi Roma 21 marzo 1928. Regista. Tra i suoi film: Nell’anno del Signore (69), In nome del Papa Re (77), In nome del popolo sovrano (90) • «’H o sempre diffidato delle ricostruzioni sull’egemonia comunista nel cinema. Mi sforzo di ricordare come eravamo, quaranta o cinquanta anni fa. E mi pare proprio di poter dire che i grandi attori, quelli che erano e sono ancora come miei fratelli, e cioè Nino Manfredi e Marcello Mastroianni, se ne sono sempre fregati altamente della politica. Erano proprio due ciociari, persone semplici, con l’arte nel sangue, un grande senso dell’amicizia, certamente antifascisti. Ma che andassero la sera al Bottegone a prendere ordini, è inverosimile, ridicolo. anche falso che ci fossero registi come Roberto Rossellini o Federico Fellini in qualche modo vicini alla Democrazia Cristiana. Figuriamoci: il loro amore per le donne era incompatibile con il partito di De Gasperi e Andreotti. La verità è che – negli anni Cinquanta e Sessanta – il cinema era un grande affare, per i produttori. Si staccavano milioni di biglietti e questo ci rendeva liberi, più liberi di adesso. Alberto Sordi aveva una paura, sì, me lo ricordo come fosse ora: temeva l’Inferno, voleva a tutti i costi andare in Paradiso. Era un bacchettone, un sacrestano nato. Quando dovevamo girare Nell’anno del Signore, con la condanna a morte dei due carbonari Leonida Montanari e Angelo Targhini, ghigliottinati in piazza del Popolo nel 1849 per ordine del Vaticano, lui voleva a tutti i costi farci modificare il finale. Gli dispiaceva che il papa facesse brutta figura, io gli spiegavo che non potevamo cambiare la storia, che c’è ancora una lapide che ricorda il luogo della decapitazione. Bino Cicogna, il produttore, ci teneva moltissimo ad avere Alberto nel cast, mi dava i calci sotto al tavolino perché lo accontentassi [...] Sordi cercò di convincermi che anche io sarei finito in mezzo alle fiamme eterne, ”guarda che questo film è contro la Chiesa, non pensi all’aldilà, quando muori non vuoi andare in cielo?’ Io ridevo. Lui, serissimo: ”Peggio per te’. Alla fine, il film l’abbiamo fatto rispettando la verità. Al punto che gli spettatori romani – il film è stato in prima visione per tre mesi al Metropolitan – uscivano dalla sala e andavano in piazza del Popolo a vedere se la lapide c’era davvero” [...] La passione per la storia italiana, in particolare per i momenti di passaggio e di cambio di regime accende la creatività del regista romano. La sua trilogia più celebre racconta, attraverso le vicende umane dei Pasquino, dei Ciceruacchio, dei papi e dei cardinali, lo scontro fra il potere temporale della Chiesa, ”una vergogna, la vergogna civile d’Europa, come diceva Mazzini” e lo stato sognato dai patrioti. ”Ho sempre creduto che il grande errore che ci portiamo dietro tuttora fu quello di mettere l’unità d’Italia nelle mani dei Savoia-Carignano, che non erano all’altezza, anziché dei Borbone, o dei Savoia-Aosta. Il regno spostò l’asse nazionale al Nord e non tentò di sanare la frattura con lo stato del Sud: ancora oggi, se ci si pensa, questo è il nostro problema più grande”. Figlio di Umberto, emigrato in America e tornato nel 1915, ”per combattere e liberare Trieste”, e di Assunta, ”bellissima e innamorata, lo aspettò per tutti e quattro gli anni della guerra”, Gigi Magni era un ragazzino studioso e ubbidiente, ”le medie al Col di Lana, il liceo alla Dante Alighieri. Mio padre si era iscritto al Fascio un giorno in cui, camminando in divisa per via del Corso a braccetto con mia madre, lo avvertirono che c’erano i socialisti che sputavano ai soldati. Lui, che era orgoglioso della sua vita militare, andò a prendere la tessera. Non fu mai un fascista ortodosso, io invece sì: ero moschettiere e capo manipolo, stavo per essere promosso avanguardista, quando il 25 luglio del 1943 cadde il regime. In poche ore, passai dalle canzoncine tipo ”Duce tu sei la luce, Dio ti manda all’Italia come manda la luce, Duce, Duce’ alla ribellione [...] A scuola, avevamo un professore straordinario, don Paolo Pecoraro, un eroe antifascista. Fu lui ad avviarci alla resistenza, leggevamo il Vangelo e pensavamo: questo Gesù è uno dei nostri, è proprio un compagno. Io ero piccolo, avevo quindici anni, venivo mandato a mettere nelle caselle delle lettere ”La voce operaia’, mi sentivo interamente un catto-comunista. Uno dei nostri leader era Adriano Ossicini, c’era Bruno Grieco, che poi sarebbe diventato il capo del partito comunista mentre Togliatti era a Mosca. Al momento della Liberazione, con i governi guidati da Togliatti e De Gasperi, sperammo davvero in una nuova era. E invece, ci trovammo cancellati, scomunicati, cacciati dalla nostra patria spirituale con un editto. Sono sincero: ho sofferto moltissimo per la scomunica, allora. Non andavamo bene per i preti, in quanto comunisti. E venivamo guardati male al partito, perché cattolici. Ero un ragazzo triste, introverso, orfano dei genitori. Mi ha salvato il cinema [...]”» (Barbara Palombelli, ”Corriere della Sera” 6/8/2005).