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 2006  agosto 05 Sabato calendario

Kissinger: nessuna pace senza l’Iran. La Stampa 5 agosto 2006. L’attenzione del mondo è concentrata sui combattimenti in Libano e nella Striscia di Gaza, ma il contesto della situazione porta invece a volgere lo sguardo verso l’Iran

Kissinger: nessuna pace senza l’Iran. La Stampa 5 agosto 2006. L’attenzione del mondo è concentrata sui combattimenti in Libano e nella Striscia di Gaza, ma il contesto della situazione porta invece a volgere lo sguardo verso l’Iran. Purtroppo, gli sforzi diplomatici in questa direzione vengono costantemente scavalcati dagli eventi. Mentre bombe piovono sulle città libanesi e israeliane, e Israele rioccupa parte di Gaza, la proposta fatta all’Iran a maggio dai Sei grandi (Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia e Cina), per negoziare sui suoi armamenti nucleari attende ancora una risposta. E’ possibile che Teheran avesse letto il tono quasi supplichevole di alcuni appelli come segno di debolezza e indecisione. Oppure la violenza in Libano ha spinto i mullah a fare calcoli sui rischi nel fomentare e gestire la crisi. Qualunque cosa possiamo leggere nei fondi del caffè, l’attuale scontro in Medio Oriente rimane uno snodo cruciale. L’Iran potrebbe trarre giovamento dalla regola delle conseguenze impreviste. I Sei non possono più rimandare, e devono affrontare la doppia sfida lanciata dall’Iran: da un lato, la ricerca dell’arma nucleare rappresenta il desiderio di modernità dell’Iran, attraverso il simbolo di potere di uno Stato moderno. Finora, i Sei sono stati vaghi sulla loro possibile reazione a un rifiuto degli iraniani a negoziare, salvo per minacce di sanzioni non meglio specificate ordinate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ma se lo stallo tra la forzata tolleranza dei Sei e le minacciose invettive del presidente iraniano porterà infine ad acconsentire tacitamente di fatto al programma nucleare di Teheran, le prospettive per un ordine internazionale multilaterale diventeranno più remote per tutti. Un disastro che sarebbe da paragonare non a Monaco, dove le democrazie consegnarono a Hitler la parte germanofona della Cecoslovacchia, ma la reazione all’invasione dell’Abissinia da parte di Mussolini. A Monaco le democrazie ritennero che le rivendicazioni di Hitler erano fondamentalmente giustificate dal principio dell’autodeterminazione: erano più che altro i metodi a dare fastidio. Nella crisi abissina, la natura della sfida non venne messa in discussione. Con vasta maggioranza, la Lega delle Nazioni votò per definire l’avventura italiana come aggressione e imporre delle sanzioni. Ma poi si tirò indietro di fronte alle possibili conseguenze di questa sortita, e respinse l’embargo petrolifero, al quale l’Italia non avrebbe potuto resistere. La Lega non si riprese mai da questa debacle. Se i forum di sei Paesi che trattano con l’Iran e con la Corea del Nord subiranno fallimenti simili, la conseguenza sarà un mondo dove le armi proliferano incontrollabilmente, impossibili da intercettare per governi e istituzioni. Un Iran moderno, forte e pacifico potrebbe diventare un pilastro di stabilità e progresso nella regione. Ma ciò non potrà accadere fino a che i leader iraniani non decideranno se rappresentare una causa o una nazione, se la loro motivazione principale sia la crociata o la cooperazione internazionale. Lo scopo della diplomazia dei Sei deve essere quello di obbligare l’Iran a confrontarsi con questa scelta. Si dice spesso che per l’Iran ci sia bisogno di una diplomazia simile a quella che, negli anni ’70, spinse la Cina dall’ostilità verso la cooperazione con gli Usa. Ma la Cina non venne persuasa da un’abile diplomazia. La Cina venne portata da un decennio di escalation del conflitto con l’Urss alla convinzione che la sua sicurezza era minacciata dall’America capitalista in minor misura che dalla crescente concentrazione delle truppe sovietiche sulle sue frontienre settentrionali. La sfida del negoziato iraniano è ben più complessa. Nel caso della Cina, per due anni prima dell’apertura le due parti si impegnarono in azioni diplomatiche sottili e simboliche per conciliare le proprie posizioni. Nel corso di questo processo giunsero a una comprensione parallela della situazione internazionale, e la Cina optò per vivere in un mondo che cooperava. Nulla di tutto questo è mai accaduto tra l’Iran e gli Usa. Non c’è nemmeno la parvenza di una visione mondiale condivisibile. L’Iran ha reagito all’offerta americana di aprire il negoziato con minacce, e ha fomentato tensioni nella regione. Anche se i raid degli Hezbollah dal Libano verso Israele, e il rapimento dei soldati israeliani non fossero stati progettati a Teheran - come sostiene oggi il presidente iraniano, facendo un’importante marcia indietro rispetto alla sua precedente retorica bellicosa - non sarebbero accaduti se i loro autori non gli avessero ritenuti contrari alla strategia dell’Iran. In altre parole, l’Iran non ha ancora scelto il mondo in cui vuole stare, oppure ha fatto la scelta sbagliata dal punto di vista della stabilità internazionale. La crisi in Libano potrebbe segnare uno spartiacque se conferisse un senso di urgenza alla diplomazia dei Sei, e una punta di realismo al comportamento di Teheran. Per ora l’Iran ha giocato per guadagnare tempo. Il presidente Bush ha annunciato la volontà dell’America a partecipare al dibattito dei Sei con l’Iran per impedire il sorgere dell’emergenza di un programma di armi nucleari iraniano. Ma non sarà possibile separare nettamente il negoziato sul nucleare da una revisione completa delle relazioni dell’Iran con il resto del mondo. Il ricordo della crisi degli ostaggi, i decenni di isolamento, e l’aspetto messianico del regime iraniano rappresentano altrettanti ostacoli per la diplomazia. Se Teheran insisterà nell’unire la tradizione imperiale persiana con il fervore islamico una collisione con l’America - e inevitabilmente, con i suoi partner nel negoziato a Sei - sarà inevitabile. Non possiamo permettere all’Iran di raggiungere il sogno imperiale in una regione di tale importanza per il resto del mondo. Nello stesso tempo, un Iran concentrato sullo sviluppo dei talenti del suo popolo e delle risorse del Paese non dovrebbe avere niente da temere dagli Usa. Per quanto sia difficile immaginare che l’Iran, con il suo attuale presidente, partecipi allo sforzo che gli richiederebbe di troncare le sue attività terroristiche, questa consapevolezza dovrà emergere dal processo diplomatico, se non verrà formulata prima. Questo approccio implicherebbe una nuova definizione dell’obiettivo del cambio di regime, dando l’opportunità per un genuino cambiamento in Iran, indipendentemente da chi sarà al potere. Un vero accordo dipende anche dalla comprensione che si ha del fatto che questo dossier è solo un primo passo nell’invitare l’Iran di ritornare nel mondo esterno. Henry Kissinger