La Repubblica 05/08/2006, pag.45 Beniamino Placido, 5 agosto 2006
Il presidente Kennedy è ancora vivo. La Repubblica 5 agosto 2006. Ogni tanto è bello andare a Fiumicino, Aeroporto Internazionale
Il presidente Kennedy è ancora vivo. La Repubblica 5 agosto 2006. Ogni tanto è bello andare a Fiumicino, Aeroporto Internazionale. Non necessariamente per prendere il volo e imbarcarsi per l´America; paese peraltro in cui sono stato più di una volta, la prima delle quali risale al 1963, l´anno che vide il famoso (e tutt´ora a suo modo misterioso) assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Nell´estate di quell´anno mi trovavo a Boston, ospite del Seminario Internazionale di Harvard, fondato e diretto da Henry Kissinger. Nel «fatal novembre» - l´assassinio avvenne il 22 - ero già tornato in Italia, alla solita vita, al solito lavoro. Quando la notizia arrivò - cioè esplose - anche da noi, mi trovai a fronteggiare le domande di chi chiedeva: ma come mai? Li ammazzano così i presidenti americani? E le cose, poi, stanno proprio come ce le raccontano? Lee Harvey Oswald, avrà fatto veramente tutto da solo? E come mai l´hanno ucciso subito dopo? Come mai quel Jack Ruby ha potuto intromettersi nei locali della Polizia, e farlo fuori comodamente? Comodamente poi, per chi? Per chi era parte della più vasta, più articolata congiura che aveva messo capo all´assassinio: altro che un uomo solo a sparare, un uomo solo ad ammazzare il Presidente (di una congiura, di una «conspiracy» doveva trattarsi, accidenti!). Nei mesi estivi passati presso l´Università, noi studenti/studiosi stranieri (tedeschi, francesi, inglesi, cecoslovacchi, cinesi), ci eravamo spontaneamente divisi in due gruppi: quelli più interessati alle questioni storico-politiche e quelli più interessati a tutti i problemi che pone la complessa vicenda della Letteratura Americana, della quale eravamo consumatori forse ingenui, sicuramente appassionati. Ci orientava e ci disciplinava nelle nostre discussioni, un certo Jack Ludwig. Un professore come tanti altri. Che però, dopo, nient´altro di importante ha fatto. Chissà come mai. Chissà perché. Lì invece era vivacissimo e stimolante. Anche esigente. Non tanto nei confronti nostri - che amavamo fare anche altre cose, conoscere gente, frequentare bar e tavole calde, andare al cinema - quanto nei confronti dei suoi connazionali: «Questo è un paese dove non succede mai nulla», soleva ripetere ogni giorno, ogni mattina. Eppure ci saranno elementi di tensione, ci sarà il modo che qualcuno tiri fuori un Macbeth, un Amleto! Macché, niente. Calma piatta. «Calme plat», aggiungeva in francese per farci capire che anche lui sapeva leggere Baudelaire: «D´autres fois, calme plat/ Grand miroir de mon désespoir». Poi ci precisava che quella era una citazione indiretta, ripresa da Conrad. E la discussione poteva riprendere, in tutta la sua fragorosa letterarietà. Già: come mai non succedeva niente, in quell´America, che pure era l´America del primo Kennedy? Ma questi kennediani, li avete mai guardati da vicino? ci diceva Jack Ludwig. Si rassomigliano tutti, anche nel ciuffo, e tutti cercano di rassomigliare a lui, a John Fitzgerald, anche nel modo di portare la giacca, di annodare la cravatta. Sono dei politici di molta ambizione, e di poca ispirazione. Sono dei burocrati della politica. Quelli del «New Deal», quelli di Franklin Delano Roosevelt, quelli sì erano dei politici appassionati e partecipi. Non era vero, naturalmente, non del tutto. Anche se nelle visite che ci accadeva ogni tanto di fare a qualche Governatore, i tentativi di rassomigliare a John Fitzgerald Kennedy, almeno nel ciuffo, non passavano inosservati. Cosa c´entra questo preambolo con le mie gite periodiche all´Aeroporto Internazionale di Fiumicino? E´ che nelle edicole di quell´aerostazione, traboccanti di giornali, di riviste e di libri, si trovavano (si trovano) in gran quantità i paperback più vari. I romanzetti con la copertina colorata, coloratissima che parlano di amore, di odii, di tradimenti, di matrimoni e di adulteri. Ad essi frammischiati, anche gli esemplari più vari e ricorrenti di quel genere romanzesco che è ambientato alla Casa Bianca, e perciò si chiama «Washington Novel»; incentrato sulla figura, più o meno drammaticamente presentata, del Presidente. Delle passioni che lo animano, dei pericoli che corre. Sempre nella Casa Bianca, che si trova nella città di Washington, dove ci sono anche la Camera dei Rappresentanti e il Senato e quindi il «Washington Novel». L´erba del «Washington Novel» (così come, in parallelo, l´erba del «Washington Film», o «Washington Movie», come direbbero più probabilmente in America) cresce indomabile tutto l´anno, tutti gli anni. Ciò che rende pressappoco impossibile (e meno male) ogni tentativo di elencazione sistematica. Il «Washington Novel» è sempre chiamato in causa; in pratica è riconosciuto come genere, ma raramente figura come tale nelle storie letterarie. Eppure ha prodotto anche alcuni libri letterariamente eccellenti, come Libra di Don DeLillo, come American Tabloid di James Ellroy, come Il fantasma di Harlot di Norman Mailer. Romanzi che proprio perché eccellenti - ancorché appesantiti da un carico lutulento di sospettosità paranoica - non esaminerò da vicino. A me (a noi, spero) interessano molto di più i libricini dalla stampa approssimativa, dall´incollatura precaria, destinati a essere letti in aereo (da Washington a Roma, da Roma a Washington) e poi ad essere lasciati lì. Perché ormai inutili, inutilizzabili. Prima, invece, a cosa servivano? Prima, nel corso di quel lungo viaggio, servivano a combattere la naturale ansia del volo intercontinentale, proprio a mezzo della tensione avventurosa, non di rado omicida, che mettevano in scena. Come diceva quell´insegna pubblicitaria per il «giallo», che trionfava sulle strade tedesche negli anni Sessanta? Diceva «Entspannung durch Spannung» («Distensione attraverso la tensione»). Quali altre tensioni - americane e non - soddisfa oggi il genere romanzesco cinematografico «Washington novel/movie»? Quali inesauste (ed inesauribili) curiosità attorno al caso Kennedy? Prendiamo un film, niente affatto particolare, anzi francamente mediocre, come Armageddon, in italiano Giudizio finale; diretto da Michael Bay, interpretato tra tanti altri, da Bruce Willis. Lui, Bruce Willis, è un provetto trivellatore di pozzi di petrolio, che un bel giorno si vede richiesto - e subito dopo, incaricato - dalla NASA di recarsi sollecitamente nello spazio. Per incontrarvi un minaccioso asteroide e trivellarlo; ad essere precisi per metterci dentro una bomba e farla scoppiare. Altrimenti quell´asteroide maledetto finirà sulla terra, distruggendola: sarà il nostro terribile giorno del giudizio («Apocalisse 16,16»). Bruce Willis e i suoi uomini accettano l´incarico non poco pericoloso: sono dei duri, loro. Dei trivellatori. Quando un generalissimo della NASA chiede loro che cosa vogliono eventualmente in cambio, rispondono facendo una lista delle piccolissime, quasi irrisorie cose che a loro premono. Che vengano loro annullate alcune contravvenzioni che hanno ricevuto. E poi qualche po´ di cibo, qualche bottiglia di liquore. Quindi, nel bel mezzo della semiseria elencazione, la domanda, la richiesta: «Ci direte chi ha ammazzato Kennedy?». Dimenticavo, e non devo: il film è del 1998. John Fitzgerald Kennedy era stato ammazzato a Dallas nel 1963, trentacinque anni prima. Eppure la domanda è ancora lì. Ce lo direte adesso, alla vigilia del Giorno del Giudizio? Ci sarebbero vari modi per spiegare la continuità e la permanenza del mito di John Fiztgerald Kennedy (e della sua drammatica morte, e di quant´altro di drammatico a cominciare dall´assassinio del fratello Robert nel ’68 e lo sgradevolissimo incidente che toccò al fratello minore Edward nel 1969 nelle acque di Chappaquiddick). Intanto si potrebbe provare a spiegarlo in termini - come dire? - culturali: un tantino generici, ma sicuramente interessanti. Ripensando, per cominciare, a quel James George Frazer che ne Il ramo d´oro ci ha istruito sul rapporto regalità-fertilità con conseguente obbligo per il re di farsi da parte, quand´è vecchio e debole; di morire a un certo punto per garantire la fertilità del suo erede. Ripensando, per continuare, a quello storico tedesco, Ernst Kantorowicz, autore de I due corpi del re, che ha dissertato in modo convincente sul fatto che al re venivano attribuiti, nella mitologia popolare, due corpi: uno, col quale moriva, l´altro col quale rinasceva reincarnandosi nel suo discendente, come avrebbe fatto John Kennedy col suo fratello Robert. Che però morì anche lui, anche lui assassinato. E allora? Allora non resta che provare a mettere in campo un altro filone culturale, che rimanda all´attrazione irresistibile che congiure e «conspiracies» esercitano sull´animo americano. Basti ricordare, per tutti, il fondamentale saggio di quarant´anni fa di Richard Hofstadter, The Paranoid Style in American Politics; ed anche l´integrazione espansiva che a quel vecchio mirabile libro ha apposto Peter Knight con il suo più recente Conspiracy Culture. From Kennedy to the X Files (Routledge 2000). Però l´aiuto migliore, ancora una volta, anche sul terreno della cosiddetta paranoia americana, l´abbiamo trovato in un altro dei nostri romanzetti, che s´intitola Idlewild, di Mark Lawson, 1995. Se vi capita per le mani vedrete subito in copertina una fotografia di John Kennedy e di Marilyn Monroe, appaiati. Dentro, si sostiene che la «conspiracy theory» è una forma di religione. Così come una persona devota si spiega tutto ed impara ad accettare tutto, anche la morte crudele dei nostri cari, perché Dio ha voluto in questo modo, alla stessa maniera le cose di questo mondo vanno come vanno perché accuratamente programmate dalla CIA, dall´FBI, dal complesso militare industriale. Non c´è nulla di casuale, di accidentale a questo mondo. Tutto è stato accuratamente predeterminato. Il quale complesso militare industriale, oltretutto, è capace di qualunque cosa: anche di fingere con l´aiuto della televisione, che gli americani siano veramente sbarcati sulla luna (come «dimostra» il film Capricorn One di Peter Hyams del 1977). Quindi altrettanto finti, simulati, accuratamente programmati, sono stati il Vietnam, il Watergate, la Guerra del Golfo, eccetera eccetera e l´attentato del 22 novembre a Dallas. Tant´è vero, racconta questo romanzetto, che Kennedy è ancora vivo, che è ancora viva Marilyn, e che ancora il cosiddetto aeroporto Kennedy di New York continua a chiamarsi Idlewild: d´altronde, perché chiamarlo diversamente, se Kennedy non è morto? Beniamino Placido